Questioni di cuore e cibo
Per il suo ritorno dietro la macchina da presa, Saverio Costanzo sceglie ancora una volta di adattare un romanzo. Dopo il best seller La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, traspone Il bambino indaco di Marco Franzoso (Einaudi, 2012) apportando i suoi personali cambiamenti, a partire dall’inizio, senza stravolgere lo spirito e il plot di base del testo originale.
Mina (Alba Rohrwacher) e Jude (Adam Driver) s’incontrano per caso, in una situazione poco piacevole che già ci fa intuire un tasto della pellicola: il cibo.
Come in tutte le commedie romantiche, il coup de foudre avrà le conseguenze – apparentemente – più immaginabili: i due si innamorano, si sposano, hanno un bambino ed è qui che le ossessioni e le paure più sopite verranno a galla. Il titolo, Hungry Hearts, è assolutamente pregnante ed evocativo, tanto più dopo che si è visto il film. Il regista romano ci pone di fronte a un uomo e a una donna affamati di amore, con una “strana” fame di vita, quest’ultima profondamente veicolata dagli eventi e soprattutto dai “credo” che ognuno di loro ha. Va subito riconosciuto a Costanzo di aver avuto coraggio nel mettere su pellicola (ha girato in 16mm) temi poco bazzicati come la scelta di sposare la filosofia vegan e tutti gli orientamenti che gravitano attorno a questa sfera. Dopo il responso della cartomante, Mina è convinta che suo figlio sarà un indaco e cioè dotato di poteri soprannaturali o con capacità speciali. Questo la porta ad assumere un atteggiamento iper-protettivo, rafforzato dal suo essere vegana e dalla convinzione che l’ambiente circostante sia inquinato e poco adatto a un bambino. Passiamo così dai toni romantici dei primi minuti (assolutamente deliziosa la scena in cui Jude dedica a Mina: “Tu sì ‘na cosa grande per me” di Modugno) a quelli drammatici per poi cambiare ancora. In questa pellicola è difficile racchiudere tutto in una sfumatura perché i registri – in particolare da metà film in poi – si sovrappongono, basti pensare ai risvolti thriller nell’ultima parte, una scelta che conferma il coraggio di buttarsi, rivelando, però, in alcuni momenti un umorismo (immaginiamo involontario) che stona un po’.
Questo viraggio nel finale pensiamo sia dovuto a una volontà di offrire allo spettatore qualcosa che non si aspetterebbe dal punto di vista della struttura drammaturgica e in effetti il colpo di scena sorprende, ma stonano certe rappresentazioni e azioni di “fantasmi” viventi. Il regista di Private vuole sperimentare e lo fa anche nel modo di mettere in quadro le angosce che attanagliano Mina e l’atmosfera creatasi nella dinamica di coppia (vedi l’uso di plongée sghembi nonché i momenti in cui sfoca le inquadrature e adotta distorsioni ottiche).
La domanda che sorge spontanea è: esiste ancora una coppia?
Film recenti, tra cui Quando la notte di Cristina Comencini, hanno messo in scena cosa può significare l’arrivo di un figlio nell’equilibrio della coppia: si pensa sempre che ci sia l’istinto materno pronto a correre in aiuto e che avere un figlio sia l’avvenimento più naturale al mondo, ma non è così. Se nel film di C. Comencini emergevano le pulsioni inconfessabili dello stato che si attraversa subito dopo il parto, in Hungry Hearts vengono a galla i timori per una creatura che non si può proteggere più nel liquido amniotico: qui la mamma “uccide” lentamente il figlio pensando di far del bene. Mina, infatti, “elimina” il marito nella crescita del figlio (almeno fino a quando Jude non scopre che il suo piccolo è a rischio perché sottopeso e malnutrito), assorbita dalle sue convinzioni e considerando tutto un rischio. «Mio figlio non può guardare il sole» – denuncia disperatamente il padre. La donna ha quasi ricreato idealmente e fisicamente la serra che ha sul terrazzo, per lei il piccolo va protetto da qualsiasi microbo e anche da persone “esterne”. Costanzo e l’interpretazione della Rohrwacher ci mostrano come una convinzione possa annebbiare la vista a tal punto da non riuscire a vedere i danni che si arrecano a chi si ama, anche più di se stessi; non c’è, però, uno sguardo di condanna, ai momenti di forte dolore seguono quelli di dolcezza, tutti tesi a una spasmodica ricerca di eccezionalità e purezza all’interno della normalità.
Per Mina la fame di vita sembra sopirsi o, peggio, scomparire di fronte al figlio e a un sogno di vita irrealizzabile; si trasforma fisicamente e si isola nella propria casa, mentre fuori i rumori invadono New York.
A visione avvenuta Hungry Hearts si rivela un film non completamente riuscito, che lascia sì degli interrogativi rispetto alle dinamiche e ai personaggi che mette in scena, ma anche dei punti irrisolti, alimentati, in parte, da quei salti temporali che ci lasciano all’oscuro di alcune informazioni ed evoluzioni. Per quanto un film debba lasciar spazio di immaginazione allo spettatore, si avverte la sensazione che si sarebbe voluto andare ancora più a fondo di quell’amore tanto dichiarato e talvolta dimostrato, ma non abbastanza per….
A voi, nel caso, scoprirlo.
Maria Lucia Tangorra