Home In sala Archivio in sala Truth

Truth

189
0
VOTO: 7

Schegge di verità

Il giornalismo può essere considerato uno dei principali termometri di una qualsiasi democrazia. Un’affermazione retorica che trova piena conferma in una pellicola come Truth, opera d’esordio dietro la macchina da presa per James Vanderbilt, sin qui conosciuto come sceneggiatore discontinuo ma capace di inanellare pregevoli script nel curriculum, Zodiac (2007) di David Fincher su tutti. E di retorica – elemento assolutamente non negativo, se usato con intelligenza – ce ne è in abbondanza nel film che ha inaugurato ufficialmente la decima edizione della Festa del Cinema di Roma.
Truth, almeno in apparenza, rinverdisce la tradizione dei vecchi prodotti hollywoodiani del tempo che fu, che poggiavano le loro storie più o meno esemplari su solide sceneggiature e cast inattaccabili. Perfettamente logico, dunque, che Vanderbilt si sia affidato alle proprie capacità di scrittore, mettendo al servizio di divi quali Cate Blanchett e Robert Redford una regia priva di qualsiasi ambizione autoriale. Adattando il libro di Mary Mapes (il producer televisivo della popolare trasmissione 60 Minutes, interpretato al solito superbamente dalla Blanchett) “Truth and Duty: The Press, The President, and the Privilege of Power”, che ripercorre la vicenda del presunto scoop targato CBS sulle oscure manovre dell’allora giovane George W. Bush per evitare un pericoloso servizio militare in Vietnam nei primi anni settanta, Vanderbilt si pone e ci pone alcuni interessanti interrogativi, sotto la patina di classicismo che pare velare l’intera natura dell’operazione. Il primo e più pregnante riguarda il concetto stesso di ricerca della verità, in assoluto il fulcro centrale per ogni persona che intenda intraprendere la carriera giornalistica. Ebbene, il risultato che scaturisce dalla visione di Truth è che la verità assoluta, quando si toccano i cosiddetti poteri forti, non può esistere. Sussistono solamente tentativi di ricostruzione della stessa, nonché conseguenti, inevitabili, confutazioni che scattano quasi come un riflesso pavloviano nell’ambito della parte politica che si avverte attaccata. Una pratica comune ad ogni latitudine, su cui in Italia si potrebbero scrivere saggi senza soluzione di continuità. La critica nemmeno troppo velata al modus operandi statunitense – solo fintamente irreprensibile – sui processi di accertamento della verità stessa, si focalizza in Truth nelle commissioni indipendenti che vengono chiamate in causa ogniqualvolta si toccano nervi palesemente scoperti. Chi controlla i controllori? Chi ci dice che non siano loro stessi affetti da una parzialità di giudizio? Nel film l’operato giornalistico della squadra capitanata da Mary Mapes e dal celebre anchorman Dan Rather (Redford) viene sottoposto ad un giudizio “imparziale” da parte di terzi. Tutti però palesemente dalla parte dell’allora Presidente in carica G.W. Bush. Inevitabile quindi che Truth racconti anche, con quel pizzico di enfasi che può infastidire o galvanizzare secondo la singola sensibilità dello spettatore, del collasso di quel pilastro vitale di ogni democrazia chiamato obiettività. Mary Mapes viene accusata di essere liberal e tramare contro il repubblicano Bush sin dalla sua prima elezione. Lei risponde attaccando a propria volta, in una disperata battaglia che vede una tale sproporzione di forze in campo il cui esito reale nemmeno il cinema può modificare a beneficio di un lieto fine.
Curioso notare, per concludere questa nostra disamina, come ormai Hollywood giochi di rincorsa rispetto alla televisione, medium in cui i serial stanno davvero rivoluzionando i parametri di gusto e successo. Anche a livello di struttura narrativa Truth pare The Newsroom – serie televisiva di grande successo oltreoceano incentrata sulla quotidianità di una redazione televisiva operante su un immaginario canale di news – priva però della brillantezza a tutto tondo della scrittura di Aaron Sorkin. Anche se Vanderbilt, pur facendo spesso ricorso a toni seriosi da melodramma, riesce comunque ad evitare le tante trappole disseminate sul percorso di un lungometraggio nemmeno troppo in fondo ben più ambizioso della sua insita vocazione all’intrattenimento.

Daniele De Angelis

Articolo precedenteWolfpack
Articolo successivoIl regno di Wuba

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

diciannove − 1 =