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White Tiger

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VOTO: 8

L’uomo che sussurrava ai carri armati

In questi giorni nella capitale sta avendo luogo una interessante retrospettiva su Karen Šachnazarov, grande regista russo e presidente della Mosfilm, organizzata dall’Istituto di Cultura e Lingua Russa di Roma. L’evento è in collaborazione con la stessa Mosfilm, con Sandro Teti Editore, con il Nuovo Cinema Aquila e con il Cinema Farnese, ovvero le sale che ospitano la manifestazione. Venerdì 7 giugno è stato il turno, al Nuovo Cinema Aquila, dell’incontro con l’autore, seguito peraltro dalla proiezione di Anna Karenina: Vronsky’s Story. L’azione si è spostata nel weekend al Farnese. E qui ci stiamo trovando di fronte a una scorpacciata di titoli, dai quali emerge progressivamente il ritratto di un cineasta tanto eclettico, quanto padrone della messinscena. In tal senso la visione più esaltante è stata finora quella di White Tiger (Belyy tigr, in russo), atipico lungometraggio bellico realizzato nel 2012.

Autentici predatori sui cingoli: le armate del Terzo Reich, durante la Seconda Guerra Mondiale, potevano contare su modelli di panzer possenti come quelli delle serie Panther e Tiger, i cui stessi nomi arrivavano ad incutere timore. E ad essi l’Armata Rossa, riavutasi presto dalla debacle iniziale, poté contrapporre versioni sempre più efficienti del carro armato T-34, che ha rappresentato la spina dorsale delle forze corazzate sovietiche nel corso del lungo e sanguinoso conflitto.
Così come la cinematografia russa (e prima ancora sovietica) abbonda di pellicole incentrate su quella che è nota, in tale paese, come “Grande Guerra Patriottica”, vi sono stati a un livello più generale diversi film, nel mondo, con al centro della narrazione epici scontri tra carri armati: dal recentissimo e appassionante Fury (2014) di David Ayer, in cui l’equipaggio di un carro Sherman diventava quasi sostitutivo dell’idea di famiglia, al datato e assai ruvido Belva di guerra (1988), ambientato dall’americano Kevin Reynolds nell’Afghanistan invaso dai sovietici, passando magari per il sopravvalutato e sottilmente retorico Lebanon (2009) dell’israeliano Samuel Maoz. Ebbene, in White Tiger l’approccio è ancora diverso, quasi misticheggiante.
Le battute iniziali del film, costituite in gran parte da sinuosi e formalmente impeccabili piani sequenza, ci mostrano in realtà un Karen Šachnazarov a suo agio con la drammaticità della guerra (non diversamente dall’incipit del già menzionato Anna Karenina: Vronsky’s Story, trasposto ai tempi del conflitto russo-giapponese in Manciuria), con la brutalità dei suoi effetti sui corpi e sulla psiche degli uomini, nonché con scene di massa destinate a coinvolgere una miriade di comparse e di mezzi militari. Fin qui potremmo essere nell’alveo del grande cinema russo di una volta. Ma l’autore comincia quasi subito a immergere il racconto in una serie di situazioni surreali, stranianti, che traspongono la follia della guerra in un terreno persino più estremo, tendente all’allegoria.

Protagonista “umano” della vicenda è un carrista sovietico che i commilitoni si vedono costretti a ribattezzare Nayedov, poiché l’uomo, dopo essere quasi bruciato vivo in un terrificante scontro coi carri nemici, ha completamente perso la memoria. La sua stessa sopravvivenza è vista dagli alti comandi come una specie di miracolo, difficilmente accettabile però da quel rigido materialismo storico, di cui l’ideologia ufficiale dell’URSS era imbevuta. Altrettanto inspiegabile l’attitudine dell’uomo a guarire completamente dalle ferite più terribili. E alla nostra memoria cinefila questa iperbolica “rigenerazione” ha fatto persino tornare in mente il protagonista di Un’altra giovinezza, memorabile film di Francis Ford Coppola ispirato dalla penna di Mircea Eliade: lì il Dominic magistralmente impersonato da Tim Roth guariva misteriosamente, acquisiva nuovi poteri e si trovava immerso in una sorta di percorso iniziatico, dopo essere stato colpito da un fulmine e ritenuto spacciato. Quasi allo stesso modo il Nayedov di White Tiger, che si dice protetto da un fantasmagorico “Dio dei carri armati”, in seguito all’incidente acquisirà doni inspiegabili agli occhi dei suoi superiori, tra cui la capacità di comunicare tanto coi carri dell’Armata Rossa che coi panzer germanici; riuscendo addirittura a prevenire le mosse della “Tigre Bianca”, un leggendario e apparentemente indistruttibile carro Tiger che semina il terrore nelle file sovietiche, quasi fosse guidato da una volontà sovrumana.

Con lontani echi di Duel e Christine – La macchina infernale, l’invincibile carro tedesco è in qualche misura omologo di Moby Dick, della balena bianca di Melville (simili pure i cromatismi), così come analoga è l’ossessione generata nei suoi nemici. Tra inquadrature dotate di una loro ieraticità e improvvise accelerazioni stilistiche, comprensive di qualche vertiginosa soggettiva dei blindati all’assalto, Karen Šachnazarov sa giostrare bene i diversi piani del racconto, dando vita così a un mai scontato e conturbante apologo sulla guerra, sul potere, rispetto al quale non sembra nemmeno distante, in un epilogo senz’altro inaspettato, la lezione di Sokurov. Una scena così straniante come la personale, immaginifica, paradossale confessione di Hitler post caduta del nazismo è quasi, a tale riguardo, filosofica postilla e contrappunto di Moloch.

Stefano Coccia

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