In Tank We Trust
David Ayer aveva già dato prova con le sue precedenti sceneggiature (in particolare quelle di Fast and Furious e Training Day) e regie (tra cui Harsh Times – I giorni dell’odio, La notte non aspetta, End of Watch – Tolleranza zero) di possedere uno spiccato senso del cinema, una capacità di concentrare i tempi del racconto in forme estremamente ruvide, efficaci, taglienti. Si può forse dire che Fury rappresenti allora la sua consacrazione? Possibile. Ma anche qualora il regista non dovesse più ripetersi a tali livelli, questo straordinario film di guerra rappresenterebbe comunque un unicum nel panorama americano recente, panorama che qui si è pensato bene di sconvolgere, prendendolo – letteralmente – a cannonate.
Il tema della famiglia ha sempre avuto una posizione centrale all’interno del cinema statunitense. Con tutte le sue implicazioni morali, simboliche, psicologiche, all’occorrenza anche propagandistiche. Attraverso Fury il nostro David Ayer, al contempo regista e autore dello script, riesce a conferire spessore all’ipotesi di un nucleo familiare anomalo, dettato dalle contingenze, ossia da quella disperata volontà di sopravvivere che la follia della guerra rende tangibile; sì, perché l’equipaggio del carro Sherman lanciato sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale, con alla guida un sergente Don Collier a.k.a. Brad Pitt ribattezzato emblematicamente dai suoi uomini “Wardaddy”, funziona in effetti come una specie di famiglia disfunzionale. La cornice è quella della Germania hitleriana che le truppe alleate hanno da poco invaso, incontrando città dopo città una resistenza sempre più disperata, accanita. E tra le tante cesure importanti del film si può contare anche la sequenza, in sé strepitosa, nella quale il sergente e un novellino trovano finalmente la loro controparte femminile, realizzando per pochi minuti un regime di forzata ma incredibilmente armonica convivenza con le due donne tedesche, trovate confuse e impaurite nella casa che stavano ispezionando. Il rude “Wardaddy”, che conosce il tedesco, trova persino il modo di sedersi a tavola e leggere un giornale, dando vita a una delle scene più stranianti – e significative – dell’intero lungometraggio. Tutto ciò mentre una delle donne è di là a cuocere le uova. È sufficiente però che gli altri carristi posti sotto il suo comando, abbrutiti da mesi e mesi di combattimenti ma anche “gelosi” per essere stati esclusi da quel piccolo privilegio, facciano irruzione in scena, per stravolgere il delicato equilibrio di quella inedita situazione. E il profluvio di atteggiamenti paranoici e persino stravaganti, nella loro ferinità, che ne consegue, può riportare alla memoria il discorso sull’assurdità normalizzata, codificata, del contesto bellico, già presente in alcuni dei migliori film realizzati nel corso degli anni ’70 da registi come Sam Peckinpah, Robert Aldrich, Samuel Fuller. Certe volte è proprio a Il grande uno rosso, capolavoro di Fuller, che vien voglia di accostare l’opera diretta con polso, maestria e certosina attenzione ai dettagli della ricostruzione storico/militare, da un David Ayer che esercita sulla messa in scena un controllo simile a quello che il generale Patton poteva esercitare sulle proprie divisioni corazzate.
Ecco, la densità materica di quanto viene rappresentato sul set è un qualcosa che rimanda alle più schiette e sanguigne produzioni cinematografiche di quegli anni, in misura molto maggiore di quanto possa invece ricordare quei giocattoloni sofisticati, in quanto a utilizzo – e abuso – della computer grafica, ma fondamentalmente vuoti e pacchiani, che hanno imperversato a Hollywood in tempi più recenti. Si pensi ad esempio al veramente pessimo Pearl Harbour diretto nel 2001 da Michael Bay, parto di una retorica mostruosa dove per giunta i caccia Zero dei giapponesi si muovevano in cielo con acrobazie impensabili anche per il Millennium Falcon di Han Solo. In Fury, al contrario, vediamo in azione veri carri armati Sherman rimessi in carreggiata per l’occasione, osserviamo ragazzini della Hitler-Jugend che tendono agguati imbracciando il celebre Panzerfaust, assistiamo alla brutalità dei corpi esposti lungo le strade e appartenenti a gente giustiziata dalle SS con l’accusa di tradimento o a quella dei soldati tedeschi fatti prigionieri e massacrati sul posto dai militari alleati, esasperati per le troppe perdite subite; assaporiamo insomma con angoscia crescente e senza mai avere un calo di tensione il fango, le pallottole, gli edifici di borghi mitteleuropei sventrati dalle bombe, i corpi squarciati dalle cannonate o falciati dal fuoco delle mitragliatrici, le discussioni animate dei soldati, i dubbi di natura etica davanti alla decisione brutale di un commilitone. Tutto ciò è arricchito poi da limitati interventi in post-produzione che, contrariamente alla moda imperante, tendono più all’essenziale che a un superfluo dilagare di effettacci: comprensibile è senz’altro l’utilizzo della CG per gli squadroni di bombardieri americani che solcano il cielo in lontananza o per certe fasi degli scontri a fuoco. Mentre per il resto si tende a un genuino iperrealismo, la cui vocazione fotorealistica vuole rendere evidenti i corpi umani sfregiati, martoriati, fatti a pezzi dalle armi da fuoco, distrutti al pari degli altri elementi paesaggistici raggiunti dalla furia dei combattimenti. Un po’ secondo la formula cui lo spielberghiano Salvate il soldato Ryan ci ha opportunamente abituato, volendo.
Molto opportune anche le scelte di casting effettuate da David Ayer e dai produttori del film. A un eccellente Brad Pitt, dalla ruvidezza quasi maestosa, sono affiancate altre presenze toste, serie, credibili al punto che neppure un volto appare stonato, nel contesto antropologico che si vuole rappresentare. L’equipaggio del carro armato diviene così un microcosmo perfettamente funzionante. E questo ci ha riportato alla mente altri episodi di un passato cinematografico più o meno recente, dall’esito tecnico e artistico alquanto variegato. Se del sopravvalutatissimo Lebanon, girato dall’israeliano Samuel Maoz e insignito addirittura del Leone d’Oro a Venezia, ricordiamo soprattutto una retorica ambigua e a tratti persino insopportabile, mascherata appena dall’uso apparentemente innovativo della soggettiva, il film incentrato sulle vicissitudini di un tank e del suo equipaggio che ci è rimasto maggiormente nel cuore è senz’altro Belva di guerra (1988), dell’americano Kevin Reynolds. Altro contesto bellico, l’Afghanistan occupato dalle truppe sovietiche, ma rispetto a Fury un’analoga sincerità di fondo, nell’interpretare le psicologie dei soldati presenti sul carro armato e la claustrofobica situazione di vita (e di morte) da loro esperita.
Stefano Coccia