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We Are Fine

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VOTO: 6

Romanzo di (de)formazione

C’è un senso di minaccia incombente e costante nelle immagini che compongono, perfette e raffinate, i sette, sconclusionati capitoli di We Are Fine (Uns Geht Es Gut), presentato al Torino Film Festival 2015 nella sezione After Hours. Persino la violenza, in questa ennesima, millantata pseudo declinazione di Arancia Meccanica, pare suggerita piuttosto che realmente presente, sospesa in un’attesa che spesso frustra le aspettative o, nel migliore dei casi, risolve il tutto in una baruffa grottesca.
Il tedesco Henri Steinmetz, al suo esordio nel lungo, compone, con mirabile virtuosismo visivo, un trionfo barocco ed estetizzato sul Nulla, viaggio senza ragione e senza meta di cinque ragazzi che si amano, si odiano, si lasciano. Tra corse nei boschi, bagni in piscina, ozio in grandi ville abbandonate e vagabondaggi in città, in mezzo a un variegato quanto desolante bestiario umano, in capitoli che rimandano alla struttura da romanzo settecentesco, tra inquadrature dal gusto pittorico e movimenti di macchina compiaciuti, va in scena l’epopea assurda e grottesca di un gruppo di giovani allo sbando, il loro (non) racconto di (de)formazione in un mondo imprecisato e astratto, in un teatro dell’assurdo dove Beckett incontra un’estetica patinata da servizio di moda, e un’umanità viscerale fatta di corpi ansimanti e sangue si confonde a dinamiche surreali a lungo andare insostenibili.
É arduo dare un giudizio che non sia netto a We Are Fine, nato, come potrebbe sembrare, proprio per provocare, proprio per suscitare, senza mezzi termini, fastidio o rapita gratificazione, odio o amore incondizionato.
Coi suoi silenzi sostenuti, i suoi personaggi imprevedibili e costantemente sopra le righe e un senso di afasia estenuante, We Are Fine gioca apertamente col suo pubblico, lo ipnotizza con le sue suggestioni stilistiche per poi spiazzarlo con uno straniamento distaccato e insofferente, con l’inconsistenza di una trama consapevolmente inutile.
Ecco allora come, alla resa dei conti, ogni immagine di cui sono composte queste scenette estrapolate da un contesto nebuloso, pur suggestive per potenza stilistica e trovate, tradisca una reale mancanza di idee, una vera forza espressiva che sia realmente capace di dar corpo a un sentimento e a un disagio tanto generazionale quanto esistenziale, al di là di un compiacimento formale convinto che basti mettere in scena la noia per fare un film su di essa.

Mattia Caruso

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