Paranoia Agent
Durante la conferenza stampa di Regression svoltasi a Roma, Alejandro Amenábar ha confermato di non essere “soltanto” uno dei più abili tessitori di suspance, nell’attuale panorama cinematografico, ma di saper trasferire certe tensioni sul grande schermo anche in virtù dell’intelligenza, della grande consapevolezza, che hanno contribuito a formare la sua sfaccettata visione estetica. Insomma, ad affermarsi in lui è sempre uno sguardo estremamente maturo, sia che si tratti di concepire i tratti fortemente iconici dei propri lavori, sia che si eserciti nel valutare l’importanza dei contributi, artistici e concettuali, offerti da altri maestri del cinema. Non è certo un caso che il cineasta iberico di origini cilene abbia risposto, a coloro che gli chiedevano di parlare della funzione del demoniaco nell’ultimo film, citando un altro grande abituato a compiere arditi viaggi nei territori del fantastico, ovvero Guillermo Del Toro. Pare infatti che Del Toro si sia soffermato, in una dichiarazione relativa ai film di genere, sulla distinzione esistente tra quelli in cui il diavolo è una presenza esterna all’uomo, e quelli in cui sarebbe riconducibile a qualcosa di oscuro che si annida, invece, nella psiche umana. Ecco, ciò costituisce anche per noi un’ottima base di partenza. Perché il percorso tracciato da Regression si configura, tanto nelle parole dell’autore che per quanto viene rivelato dal procedere dell’indagine, dalle immagini stesse, come una scelta di campo ben precisa, da collocare al di là dei tanti, suggestivi depistaggi inseriti nel corso della narrazione.
Vi è però qualche fondato, persistente timore relativamente a quale potrà essere, in sala, l’accoglienza da parte di un pubblico che, complice il trailer incalzante e ben confezionato, tenderebbe ad aspettarsi dosi di terrore decisamente superiori a quelle che una simile visione può regalare. Per quanto i momenti di tensione e di angoscia non manchino, non è qui lo spavento puro l’obiettivo primario del regista. Ciò che sembra interessargli realmente, invece, è una metodica, implacabile costruzione del perturbante.
L’ispirazione per il labirintico plot di Regression è arrivata ad Amenabar da alcuni inquietanti episodi verificatisi in America nei primi anni ’90, allorché il sospetto che diverse sette dedite al culto di Satana si stessero macchiando di crimini orribili, compresa l’uccisione rituale di bambini, dilagò al punto di generare una sorta di psicosi collettiva.
Ricollegandosi a questo scenario, la storia ha origine nel 1990 con l’arrivo in un commissariato del Minnesota di John Gray, uomo dall’aria turbata che la figlia sta accusando, col supporto della chiesa locale, di abusi gravissimi. Gray, per inciso, è interpretato dall’attore svedese David Dencik (notevole già ne La talpa di Tomas Alfredson), in grado di generare un’impressione morbosa col semplice atto di levarsi il berretto e scoprire una incipiente calvizie, durante l’interrogatorio iniziale. Tra l’altro è come se le prime battute del film dettassero il ritmo a una narrazione che ha nell’evidente disagio dei protagonisti e nelle atmosfere plumbee, accentuate anche dalla fotografia e da location adeguate, uno dei suoi punti di forza. Le indagini sviluppatesi da tale denuncia vedono il detective Bruce Kenner a.k.a. Ethan Hawke, apparentemente l’unico uomo risoluto della piccola stazione di polizia, lavorare al fianco dello psicologo Kenneth Raines (al solito molto convincente David Thewlis, che qui lo impersona), il quale con l’aiuto dell’ipnosi spingerà Gray a ricordare frammenti di un passato di violenze, che l’uomo sembrerebbe aver rimosso. Le visite agli altri membri della famiglia, in primis quelle alla presunta giovane vittima (di un certo spessore anche l’interpretazione di Emma Watson), convinceranno gli investigatori dell’esistenza di una cerchia potente e molto radicata nella loro cittadina, con agenti di polizia e altri insospettabili tra i propri membri, che starebbe portando avanti impunemente una lunga serie di abusi sessuali nelle famiglie degli adepti, messe nere, raccapriccianti sacrifici umani e altri episodi di inaudita brutalità, volti a scoraggiare chiunque intenda curiosare nel loro mondo.
Ma le confessioni ottenute tramite l’ipnosi saranno tutte veritiere? E la testimonianza della ragazza attendibile? I nervi del detective e di chi gli sta intorno non staranno forse cedendo, sulla spinta di istinti irrazionali dati dallo stesso condizionamento ambientale? Proprio quando il racconto sembrerebbe avvitarsi sull’incubo della setta satanica, nuove rivelazioni porteranno a prendere in considerazione altre ipotesi, quasi altrettanto ansiogene ma di diversa natura…
Dopo un po’ l’autore scopre le sue carte, finendo di tessere un ordito da cui emergono, in filigrana, le paranoie che serpeggiano in determinati contesti sociali, paranoie tali da deformare la realtà nutrendo l’immaginazione di mostruosi complotti, di sinistre figure che operano nell’ombra. Ma se dietro tali ombre non si celasse altro che il buio della nostra mente? Ed è qui che Amenábar mostra tutto il suo talento registico, tenendo abilmente in piedi quel doppio registro in cui il linguaggio del cinema di genere a lui sempre caro, ma esplorato ogni volta da angolazioni nuove (nel folgorante Tesis in un modo, per assecondare poi in The Others inclinazioni ancora diverse), si riflette nel dialogo sempre più difficile tra razionalità e istinto. La volontà di controllo espressa dal detective e dallo psicologo, ognuno sulla scia dei propri orizzonti ideologici e caratteriali, si infrange a contatto con una situazione che a loro sfugge continuamente di mano, facendo materializzare dubbi, sospetti e paure. Il registro onirico si afferma principalmente nelle scene, di natura allucinatoria, che vedono la setta in azione: sarà anche il ruolo esercitato dalle maschere, o dai volti nascosti nella semi-oscurità, ma in simili frangenti Regression può ricordare tanto il Kubrick di Eyes Wide Shut che certi aspetti dell’immaginario lynchano. Siamo comunque nei territori dominati dalla (auto)suggestione. Mentre poi accade che Amenábar, nelle scene in cui il personaggio di Ethan Hawke si sente minacciato all’interno della propria stessa casa, si trovi a introdurre con grande proprietà stilistica una condizione liminale che sfiora il prolifico filone della home invasion, rendendo esplicite ulteriori fobie presenti nell’American way of life, e relative conseguenze. Più classicheggianti, ordinate e al limite prolisse potrebbero apparire le sequenze in cui si sviluppa la detection vera e propria: lunghi interrogatori, perquisizioni di appartamenti, incontri coi sospettati, le vittime e i testimoni. Ma è anche così che il percorso razionale dell’investigazione si esprime, mostrando peraltro i suoi limiti nella ricerca di troppo facili verità, dando modo al cineasta spagnolo di dimostrare quella grande maturità espressiva, veicolata pure dalle scelte di messa a fuoco, dai tagli di luce sempre appropriati, dalla sottolineatura di dettagli stranianti e più in generale dal non filmare mai in modo banale, “innocuo”, la più semplice delle inquadrature.
Oltre ai meriti inerenti alla messa in quadro, Alejandro Amenábar può arrogarsi quello di aver ottimamente diretto un cast assemblato bene in partenza, cast all’interno del quale spicca di sicuro la presenza del carismatico Ethan Hawke: il bell’attore statunitense sta diventando, quasi suo malgrado (sempre in conferenza stampa Amenábar ha dichiarato di stimarlo da sempre ma di essere riuscito a coinvolgerlo nel progetto proprio in base all’atipicità dello stesso, rispetto a un genere che in realtà il talentuoso interprete non amerebbe affatto), un’icona potente dell’horror e del cinema più disturbante realizzato oggi a Hollywod, stando anche alle ottime prove fornite in Sinister di Scott Derrickson e La notte del giudizio di James DeMonaco.
Stefano Coccia