Tutto sua madre
Tra i trentanove titoli inseriti nella Selezione Ufficiale della decima edizione della Festa di Roma figura anche Ville-Marie, opera seconda di Guy Édoin, arrivata alla kermesse capitolina con la promessa di una Monica Bellucci inedita nel ruolo di Sophie Bernard. Ovviamente una simile affermazione non poteva che destare un certo interesse – misto a una bella dose di curiosità – nei confronti del film e della perfomance davanti la macchina da presa della sua protagonista da parte degli addetti ai lavori e non solo. Non ci vogliono che pochi minuti del film per trovarsi invece davanti a quel tipo di interpretazione alla quale l’attrice umbra ci ha abituato, ma anche al modo in cui i cineasti delle diverse latitudini hanno impresso la sua indiscutibile e prorompente immagine di femminilità sul grande schermo. Per cui, se quella mostrata dal regista canadese viene definita una versione inedita della Bellucci solo perché nel primo atto indossa una parrucca bionda e nella seconda la vediamo struccata, con i segni del tempo sul volto e con indosso un paio di jeans e una camicetta bianca, allora riteniamo la suddetta affermazione abbastanza pretestuosa e furba. Eppure ha colpito nel segno, quanto basta per attirare in sala chi come noi, dopo essere caduto nella rete, si trova ora a parlarne. Anche se la prova offerta a conti fatti non è fra quelle più riuscite della sua filmografia, una certa sofferenza e partecipazione emotiva legate al personaggio che le è stato affidato emergono. In Ville-Marie si cala nei panni di una famosa attrice europea giunta a Montreal per girare un film, cogliendo anche l’occasione per andare a far visita a suo figlio Thomas con la speranza di riallacciare i rapporti con lui. Ma Thomas ha altri piani per loro; ha intenzione di riuscire finalmente ad avere alcune risposte a proposito di suo padre. Contemporaneamente, all’ospedale Ville-Marie, il paramedico Pierre soffre per la sua sindrome da stress post traumatico, pensa di avere il supporto di Marie, l’infermiera che gestisce l’affollato pronto soccorso, e non è sicuro di poter affrontare questa mole di lavoro. Le vite di questi quattro problematici personaggi, si intersecano durante un disastroso evento a Ville-Marie in una buia notte di Montreal.
Anche nella sinossi è altrettanto facile imbattersi in qualcosa di già visto, sia in termini drammaturgici che narrativi. Lo script, firmato a quattro mani dal regista e da Jean-Simon DesRochers, si affida a un’architettura piuttosto abusata che trova il tradizionale punto di rottura in un evento traumatico che finisce con il mandare in rotta di collisione i destini dei personaggi di turno. Come in Crash di Paul Haggis, anche nella pellicola di Édoin, figure inizialmente lontane sono costrette a intrecciare le proprie vite e il motivo scatenante, neanche a dirlo, non può che essere un incidente stradale. Modus operandi, questo, che è diventato un vero e proprio marchio di fabbrica del cinema partorito da Guillermo Arriaga per se stesso e per gli altri (da Alejandro González Iñárritu a Tommy Lee Jones). Nel caso di Ville-Marie l’intreccio però si rivela basico, poco stratificato e di riflesso telefonato. Le dinamiche che ne scaturiscono generano un mosaico di eventi ai quali non viene dato il dono dell’imprevedibilità. Di conseguenza, l’aura di mistery che la scrittura tenta di mettere in piedi si scioglie come neve al sole. E come se non bastasse, il regista nordamericano, che ben aveva fatto con l’opera prima dal titolo Marécages (presentata con successo nel 2011 alla Settimana della Critica della Mostra di Venezia), cerca la strada del metalinguaggio. Per farlo improvvisa un film nel film attorno alle vicende di Sophie e Thomas, con la donna che si trova a recitare una parte che trae ispirazione dal suo passato. Ma anche questo tentativo di stratificazione drammaturgica si conclude con un buco nell’acqua che non contribuisce come dovrebbe alla causa.
Davvero un gran peccato, perché Guy Édoin da un punto di vista tecnico appare stilisticamente molto maturo e preparato. La cura formale nella composizione dell’immagine, ma anche l’eleganza della messa in scena che caratterizzano Ville-Marie, ne sono la riprova. Un plauso va anche alla fotografia e all’interpretazione intensa di Aliocha Schneider nel ruolo di Thomas, che già abbiamo avuto la possibilità di apprezzare in Closet Monster di Stephen Dunn (anch’esso presentato alla kermesse romana nella sezione Alice nella Città).
Francesco Del Grosso