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Closet Monster

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VOTO: 6.5

L’urlo del criceto

Solo un mese di distanza separa l’enfant prodige Xavier Dolan dal connazionale e coetaneo Stephen Dunn, eppure un abisso sembra dividerli. I due giovani registi canadesi classe 1989 hanno affrontato percorsi paralleli e completamente diversi per arrivare a sedersi dietro la macchina da presa.  Se il primo può considerarsi a tutti gli effetti un autodidatta, il secondo ha dalla sua un percorso accademico nell’ambito della Settima Arte in Università del settore. Le rispettive carriere hanno trovato spazio negli stessi anni, ma con la sostanziale differenza che Dolan ha esordito nel lungometraggio con J’ai tué ma mère nel 2009 quando Dunn era ancora impegnato nella realizzazione di cortometraggi. A quest’ultimo, infatti, sono occorsi altri sei anni prima di riuscire a debuttare con un lungometraggio dal titolo Closet Monster, con il quale si è aggiudicato il premio per il miglior film canadese all’ultima edizione del Toronto International Film Festival per poi approdare alla decima Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nella Città. Nel frattempo, il più quotato collega si faceva le ossa con altri quattro lungometraggi, catturando l’attenzione degli addetti ai lavori su scala mondiale.
Dunque, a parte l’elemento anagrafico e la nazionalità, i due cineasti nordamericani hanno davvero poco da spartire. Tuttavia, analizzando i loro modi di pensare e fare cinema, così come i temi trattati o le storie e i personaggi che hanno di volta in volta deciso di portare sullo schermo, le analogie vengono piano piano a galla. Focalizzando l’attenzione su Closet Monster, infatti, salta subito all’occhio come lo stile di Dunn si avvicini moltissimo a quello di Dolan. Viene da chiedersi allora  se il suo modo di mettere in quadro sia un tentativo di emulazione oppure no. L’alternativa è che ci sia qualcosa in Canada – magari nell’acqua – che favorisce l’omologazione, qualcosa che rende identiche le scelte dietro la macchina da presa oppure, più semplicemente, ci troviamo al cospetto di quello che tecnicamente in criminologia chiamerebbero copycat? Speriamo di no, anche se un sospetto di emulazione nei confronti di Dolan alleggia in maniera preoccupante sull’opera prima di Dunn. Lo stile pop, ritmicamente legato e dipendente dalla e alla colonna sonora, oltre alla maniera di filmare i personaggi rimanendo attaccati ai loro corpi quanto basta per catturarne anche i più impercettibili segnali, l’uso insistito dei di rallenti per enfatizzare l’azione  sono ingredienti comuni a entrambi i registi. È sufficiente la scena della corsa in bicicletta del protagonista di Closet Monster, che strizza più di una volta l’occhio a quella vista in Mommy, per aumentare sempre di più il sospetto che quanto realizzato da Dunn non sia sempre farina del suo sacco.
Le analogie però non si limitano solamente all’aspetto tecnico, ma si estendono anche alla fase di scrittura. Closet Monster racconta la storia di Oscar Madly, un adolescente creativo e motivato che esita a diventare adulto. Destabilizzato dai suoi strani genitori, insicuro della sua sessualità, ossessionato delle immagini di un pestaggio di gay a cui ha assistito da piccolo, Oscar sogna di scappare dalla città che lo sta soffocando. Un criceto parlante, la sua immaginazione e la prospettiva di un amore, lo aiuteranno a confrontarsi con i suoi demoni surreali e a scoprire se stesso. Tolto l’ingrediente pseudo-fantascientifico che vira anche verso l’horror metafisico, sinossi alla mano è impossibile non cogliere punti in comune anche nell’impianto drammaturgico, a cominciare dalla presenza della componente omosessuale per finire con il conflitto generazionale che coinvolge figli disadattati e genitori distanti.
Nonostante questo, la pellicola si presenta come un interessante esordio, decisamente nella media a livello internazionale, ma di altissima qualità se si pensa all’asfittico panorama registico nostrano. Dunn dimostra di conoscere molto bene l’hardware e le sue potenzialità espressive. La confezione estetico-formale ne è la cartina tornasole. Il regista canadese conosce il mestiere e sa sempre dove mettere la macchina da presa per rendere efficace ogni singola inquadratura. La direzione degli attori è puntuale e attenta alle sfumature dell’interpretazione e ciò permette agli attori chiamati in causa di firmare il cartellino con delle buonissime performance, come quella offerta da Connor Jessup nei panni del protagonista.

Francesco Del Grosso

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