C’è del marcio negli USA
Ottobre 2017. Il New York Times ed il New Yorker riportano una serie di accuse di molestie sessuali e violenze – da parte di numerose attrici, famose e non – contro il celebre produttore statunitense Harvey Weinstein. Da questo momento in avanti, il numero di donne a dichiarare di aver subito violenze (sia da parte di Weinstein che di altri nomi noti, a seconda delle volte) aumenterà in modo esponenziale, al punto di far pensare all’inizio di una vera e propria caccia alle streghe. Ovviamente, un evento di tale portata ha avuto la sua importante risonanza mediatica, oltre ad aver dato adito a questioni e dibattiti di ogni genere. Ciò che, almeno fino ad oggi, ancora non era successo, però, era proprio il fatto che venisse fatto riferimento a tale episodio all’interno di un lungometraggio. E non è stato fatto nulla del genere almeno fino all’inizio del 2018, quando l’eclettico – e straordinariamente prolifico – cineasta statunitense Steven Soderbergh ha pensato di realizzare un prodotto come l’adrenalinico e claustrofobico Unsane, presentato Fuori Concorso alla 68° edizione del Festival di Berlino.
Ciò che un lungometraggio come Unsane tratta non riguarda, in realtà, solo il tanto discusso caso Weinstein, bensì, come è naturale aspettarsi da un autore come Soderbergh, anche numerosi aspetti degli Stati Uniti d’America. Ma andiamo per gradi.
Sawyer Valentini è una giovane donna con brillanti prospettive di carriera ed un’intensa vita sociale. Il suo passato, tuttavia, non è sempre stato facile, infatti la ragazza è stata stalkerata per ben due anni da un uomo che abitava nella sua città natale. Tale evento le ha procurato un trauma talmente forte da vedere in chiunque uomo le capiti di incontrare un potenziale maniaco e da sentire il bisogno di rivolgersi ad uno psicologo. A tal fine, la giovane si reca in una rinomata clinica, dove, tuttavia, verrà ricoverata senza apparente motivo insieme ad altri malati di mente. Quello che le è capitato le sembra assurdo, fino al momento in cui incontra proprio il suo persecutore, il quale lavora come infermiere nella stessa clinica.
Già da una prima, sommaria lettura della sinossi, possiamo immaginare fino a che punto il genio di Soderbergh sia riuscito a spingersi. Quello a cui ha dato vita è, di fatto, un claustrofobico thriller dagli echi polanskiani, che non ha paura di osare, che si diverte a giocare con lo spettatore facendogli credere determinate cose, per poi ribaltare drasticamente la realtà e che sa ogni volta reinventarsi evitando il già detto o il già visto. A contribuire alla riuscita finale, l’uso – al posto della macchina da presa – di un i-phone, il cui obiettivo leggermente grandangolare si è rivelato particolarmente adatto a rendere il forte senso di spaesamento e quasi di soffocamento provato dalla protagonista. Sono, a tal proposito, primi e primissimi piani spesso presi dal basso verso l’alto, occhi dei personaggi che bucano lo schermo e quasi ci minacciano personalmente e, non per ultimo, l’espressivo volto della protagonista (una Claire Foy in stato di grazia), truccato all’occorrenza per enfatizzare uno sguardo da un lato ingenuo e spaesato, dall’altro terrorizzato e consapevole a fare da valore aggiunto a tutto il lungometraggio. E, non per ultima, non poteva mancare anche quella giusta dose di (non troppo) velata ironia, come tradizione soderberghiana vuole.
Un prodotto, Unsane, che cavalca sì l’onda delle tendenze mediatiche, ma, in modo intelligente e mai gratuito, mette in scena anche una tagliente critica al sistema sanitario nazionale e, non per ultimo, al governo statunitense. Esemplare, a tal proposito, la battuta pronunciata da uno degli internati, diventato una sorta di alleato della protagonista, il quale afferma che alla clinica stessa conviene, per motivi puramente economici, far sì che essi stessi restino ricoverati. Riprendendo, dunque, alcuni elementi del precedente Effetti collaterali (2013), Soderbergh amplia un discorso aperto in passato e dà vita ad un prodotto girato in poco tempo e con un budget bassissimo, ma tutt’altro che modesto, dove a fare da padrona di casa è una forte satira del nostro presente e che si classifica di diritto come una delle chicche di questa 68° Berlinale.
Marina Pavido