Le regole del sospetto
Per zona d’ombra si intende quel punto o aspetto oscuro oppure sconosciuto, o confuso di qualcosa, confinato in un’area non illuminata in cui non si può vedere quello che succede o è accaduto. Ed è proprio lì che viene scaraventato suo malgrado il protagonista di Une part d’ombre, l’opera prima di Samuel Tilman presentata in concorso nella sezione “Panorama Internazionale” della nona edizione del Bif&st. La pellicola ci porta al seguito di David, un giovane e felice padre di famiglia, con una moglie che lo ama, due figli adorabili e un gruppo di amici molto unito con il quale va in vacanza. Al ritorno da una vacanza con gli amici sui Vosgi, David è interrogato dalla polizia per via di un omicidio. In poco tempo, l’inchiesta mostra come, a dispetto dell’apparenza, la vita di David non è così limpida. Il dubbio inizia a farsi strada e si creano delle fazioni. Se, all’inizio, prevale la solidarietà, la coesione del gruppo comincia a mostrare sempre più crepe. Subito, sorgono i primi sospetti.
Sin dalla lettura della sinossi si intuisci quale sia stato il modello di riferimento che ha guidato la mano e lo sguardo del cineasta belga durante la fase di scrittura prima e di trasposizione poi del suo film d’esordio. In Une part d’ombre è facile rintracciare un approccio alla materia mistery modernamente hitchcockiano, divenuto per tutti coloro che nei decenni recenti hanno deciso di misurarsi con un certo modo di fare cinema tanto una croce quanto una delizia. In tal senso, quello che Tilman porta sullo schermo è un thriller che si fonda su dei canoni ben precisi del genere in questione e su quelle regole non scritte delle quali Sir. Alfred è uno se non il principale artefice. Queste per forza di inerzia si sono trasformate nei punti cardine di un modus operandi entrato con prepotenza nella storia della Settima Arte e di conseguenza nell’immaginario cinematografico (e non solo). Un immaginario e un modo di procedere, questi, dai quali più si tenta il distacco e più il rischio di entrarci in rotta di collisione si fa elevato. Insomma, un magma narrativo, drammaturgico e anche formale, dal quale è praticamente impossibile prescindere.
Tilman ne è cosciente e per questo cerca il più possibile di assecondare tale modus operandi, attingendo a piene mani dalla lezione del cineasta britannico. In particolare, oltre ala costruzione scatologica che porta a galla nel corso della timeline brandelli di verità necessari a innescare il cosiddetto show down, è la situazione in cui si viene a trovare il personaggio di turno a chiamare in causa le linee guida del cinema hitchcockiano. Il David di Une part d’ombre è, infatti, il classico malcapitato trovatosi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Malcapitato che, come avrete avuto modo di scoprire dal plot, non è per niente uno stinco di Santo. Ed su e intorno a questa situazione ormai ampiamente codificata che prende forma e sostanza l’odissea umana e legale del protagonista, costretto a fare i conti con le dure e spietate regole del sospetto.
Ovviamente è inutile e scontato stare qui a mettere in evidenza la distanza abissale, in termini di esiti, che separa l’opera prima di Tilman dal suo irraggiungibile modello di riferimento, per cui è meglio soprassedere. Dall’altra parte, però, c’è da dire che Une part d’ombre ha proprio nella componente thrilling il lato più debole, laddove sono presenti le mancanze più evidenti dell’operazione. Di fatto, la suddetta componente non può contare su una scrittura in grado di tenere insieme tutti i tasselli del mosaico, con una serie di cali di tensione che impediscono al motore del giallo di andare a pieni giri. Questo, infatti, funziona a fase alterne, con poche scene dove la suspence raggiunge il grado di ebollizione. E quando ciò si verifica il merito è principalmente della messa in quadro e delle accelerazioni di ritmo impresse alla narrazione. Dove, al contrario, la pellicola mostra il suo lato migliore è quando la componente mistery cede il testimone a quella drammatica, ossia a quella parte del racconto dove si dà spazio all’odissea di un uomo rimasto solo a combattere contro la diffidenza dell’ambiente lavorativo, domestico e amicale (qui torna alla mente Il sospetto di Thomas Vinterberg). È lì che l’operazione torna a galla, offrendo alla platea momenti emotivamente più densi e riusciti (vedi lo scontro fisico e verbale nel parco giochi tra David e gli altri insegnanti), che risollevano anche le sorti delle performance attoriali, a cominciare da quella di Fabrizio Rongione (recentemente nel cast de I figli della notte di Andrea De Sica) alle prese con un personaggio camaleontico e non semplice da gestire come quello di David.
Francesco Del Grosso