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Il buco in testa

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VOTO: 7.5

Tra passato e presente

Antonio Capuano non si smentisce neanche nel suo ultimo lavoro, dimostrando ancora una volta uno sguardo personale attraverso un linguaggio cinematografico che sa essere calato nella realtà e, al contempo, straniarsi – e straniare lo spettatore. Il buco in testa è stato presentato in anteprima mondiale, Fuori Concorso, all’ultima edizione del Torino Film Festival (dovrebbe uscire nel 2021) ed è un lungometraggio che, ‘giocando’ coi termini e le suggestioni, crea un buco nella pancia dello spettatore con dei ‘pugni’ con cui colpisce, senza dimenticare qualche carezza.
Maria Serra (un’intensa Teresa Saponangelo, che sa suonare l’instabilità interiore del personaggio che incarna) vive vicino al mare, in provincia di Napoli. Ha un lavoro precario, nessun amore. Una madre muta, con la quale ha, quindi, un ‘dialogo’ in cui le risposte sono da interpretare attraverso versi e soprattutto espressioni – è come se la donna anziana abbia elaborato il lutto in questo modo, chiudendosi in un silenzio ‘mortale’.
Quarant’anni prima, un militante dell’estrema sinistra ha ammazzato suo padre, vicebrigadiere di polizia poco più che ventenne, nel corso di una manifestazione politica. Questo ha comportato che Maria non avesse mai l’opportunità di conoscerlo perché nata due mesi dopo…
Un giorno apprende che l’omicida del padre (un Tommaso Ragno in parte) ha un nome, un volto, un lavoro. Ha scontato la sua pena e vive a Milano. Così decide di tingersi i capelli e prendere un treno veloce per andare a incontrarlo.
Il regista e autore teatrale, televisivo e cinematografico ci ha abituati a saper maneggiare le emozioni, facendole esplodere grazie alla carica emotiva che può trasmettere la Settima Arte – basti ricordarsi L’amore buio (prodotto da Gianni Minervini, a cui quest’ultima opera è dedicata, e che ha supportato Capuano anche in altri lavori) in cui l’elemento poetico e quello doloroso si fondono nell’humus umano e, in particolare, di Napoli.
Senza atto di presunzione, anzi, con l’intento di omaggiare, leggiamo nella prima scena con cui si apre il film: «ai fratelli Lumière». È l’arrivo del treno (in questo caso nella stazione di Milano), dal b/n si passa al colore con la tecnologia che si è evoluta visto che Maria è salita da Napoli con l’alta velocità. La costruzione interessante del lungometraggio consiste sia nei continui salti e incroci temporali, sia nella ricerca del rapporto diretto con la platea di turno (qui si nota anche la sua matrice di autore teatrale) con la donna che sì guarda in macchina, ma si rivolge all’obiettivo come se fossero degli ‘a parte’ con gli spettatori a teatro. È diretta e schietta, ci presenta la sua storia così come i ‘personaggi’ che la abitano; ma c’è anche un’altra dimensione che torna ciclicamente, quella dell’inconscio attraverso un incubo ricorrente (scarpe rosse su lastricato bianco).
Il buco in testa è liberamente ispirato a una storia vera. «Dimmi il motivo per cui vuoi fare un film sulla mia vita», riporta il regista nelle sue note, aggiungendo «Eravamo al telefono. Io non la conoscevo, né l’avevo mai vista. Avevo solo sentito la sua voce alla radio, in un’intervista.
Era nata nell’autunno del 1977, in una cittadina della fascia costiera a sud di Napoli, orfana di padre. Un padre ammazzato prima che lei nascesse. A Milano, mentre prestava servizio durante una manifestazione di militanti di estrema sinistra. Vicebrigadiere di Pubblica Sicurezza Antonio Custra, 25 anni, III Reparto Celere. Il racconto che ne faceva era semplice, spedito, quasi allegro. I media le stavano prestando attenzione, perché questa ragazza – dopo 30 anni! – aveva voluto incontrare, caso unico, l’assassino del padre.
Lo volevo guardare negli occhi”, diceva. “Forse sarei riuscita a liberarmi dall’odio che mi blocca da quando sono nata. Ho un buco in testa, dal quale ancora non riesco a venir fuori”. Io ero incollato alla radio, come sempre succede, quando avverto intorno a me un corto circuito. Subito pensai che quell’emozione, quella storia, dovevo trasferirla, muoverla avanti. La vita di quella ragazza “nata morta” come lei diceva di sé, bisognava farla conoscere, rivivere. […] Poi le dissi che avrei voluto, dalla sua storia, tirar fuori, potendo, un film. Lei cominciò a difendersi, sottrarsi. Diceva che la sua storia era troppo brutta. ”Non tengo la testa per queste cose, e poi da che so’ stata a Milano e l’ho incontrato… mi pare, non lo so, che qualcosa sta cambiando. Come se averlo conosciuto mi avesse squagliato tutti i brutti sentimenti”. Ma io non la mollai e dopo un po’ lei mi chiese di dirle il motivo vero che avevo. E a che, e a chi, sarebbe servito un film così. Se non raccontiamo queste cose al cinema a che ci serve il cinema? dissi ad Antonia. […] È la nostra storia. La “lotta armata” degli anni ‘70, in Italia, in Europa, vogliamo ancora parlarne o no? Di quelli che quelle lotte fecero o subirono… Dove sono adesso, che fanno, come vivono? Vogliamo provare, questo è il caso, ad entrare nella casa di uno di loro? Hanno scordato tutto?
“No”, disse lei. “Si pensa che col tempo passa pure il dolore ma non è così. I ricordi fanno male per sempre”. Le dissi anche, un film che parli anche di te, Antonia, serve anche per non lasciarti sola. Vorrei che tutti noi potessimo conoscerti». Antonio Capuano, forte dell’interpretazione così viva e spontanea della Saponangelo e di una storia che parte da una persona reale così sincera, è riuscito nei propri intenti di raccontare e immaginiamo anche di farla sentire meno sola.
Non è semplice toccare cicatrici così profonde, che hanno segnato la vita ancora prima di venire al mondo, e renderle con rispetto sullo schermo e la poetica di Capuano lo fa col giusto equilibrio tra tatto e ‘violenza’, senza mai oltrepassare il limite.
Ci teniamo a ricordare che completa il cast Francesco Di Leva, pronto a interpretare un duplice tipo di uomo: da un lato quasi utopico, pronto a impegnarsi coi ragazzi a cui insegna che può e deve esistere un mondo migliore (sembra quasi esserci una certa sovrapposizione con l’impegno reale dell’attore a San Giovanni a Teduccio – quartiere periferico della città partenopea). «Ormai la scuola è l’ultima cosa, come se fossimo l’ultima spiaggia, dobbiamo cercare di smuovere qualcosa», asserisce con la convinzione di chi non pensa l’esistenza come chi la subisce. Dall’altro emerge anche l’aspetto violento, di un uomo che vuole prevalere sul sesso che considera debole e di propria proprietà.
Il ‘buco nero’ potrebbe inghiottire tutto se si è provato sulla propria pelle una storia del genere eppure Capuano le dà – e ci rilancia – uno spiraglio.

Maria Lucia Tangorra

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