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Un couteau dans le coeur

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VOTO: 5

L’uccello del malaugurio

Sulla scia di giudizi critici non particolarmente positivi, seguiti alla première mondiale a Cannes 2018, Un couteau dans le coeur è sbarcato nel concorso della 32esima edizione del Festival Mix Milano per provare a conquistare la platea meneghina. Suo malgrado, però, il film di Yann Gonzalez, realizzato a distanza di cinque anni da Les rencontres d’après minuit, ha nelle fondamenta che lo sorreggono una serie di punti deboli che ne indeboliscono l’architettura. Questi determinano delle criticità strutturali, tanto nella drammaturgia quando nella narrazione, che finiscono con il provocare una reazione a catena e un conseguente indebolimento del tutto.
Scavando analiticamente verso le suddette fondamenta, al fine di andare a individuare le cause scatenanti che hanno provocato tali problematiche, ci si accorge che il vero tallone d’Achille sta nello scollamento dei singoli ingredienti e nella saturazione di quest’ultimi all’interno della timeline. Su questa si viene a creare un evidente sovraffollamento di elementi disparati, alcuni dei quali interessanti e riusciti, che a conti fatti non riescono tutti a coesistere nel corpus narrativo. Il tal senso, il cineasta francese si dimostra ancora una volta incapace di mescolare le tante componenti chiamate in causa, quanto basta per dare un’organicità e una scorrevolezza al racconto. Di fatto, in Un couteau dans le coeur, l’autore, da una parte reitera quelli che erano stati gli errori compiuti in passato con l’esordio del 2013, dall’altra mette nuovamente in evidenza quelli che sono i suoi punti di forza, a cominciare dallo stile poliedrico e strabordante con il quale costruisce la scena e la sua messa in scena. Quest’ultimi, purtroppo, non consentono all’opera seconda di Gonzalez di mantenersi a galla sulla soglia della sufficienza, quanto basta per impedirgli che il peso di certe inconsistenze, criticità e vizi di forma zavorrino il film, la storia che racconta e le one line dei personaggi che la animano. Come nel precedente adotta una struttura camaleontica che, partendo da una tonalità precisa, strada facendo cambia poi pelle. Qui siamo nella Parigi di fine anni ’70, dove un giovane attore porno viene brutalmente assassinato da un uomo mascherato. Unico indizio: una piuma abbandonata sulla scena del delitto, appartenente ad un leggendario uccello cieco. La produttrice Anne, dipendente dall’alcol e tormentata dai postumi della relazione con la montatrice Loïs, riadatta il progetto a cui stava lavorando per dare vita a Le tueur homo, dedicato alla memoria della sua giovane musa. Le riprese procedono in un clima di crescente inquietudine, perché l’omicida mascherato è deciso a non fermarsi.
Leggendo la sinossi e guardando il film sono fin troppo evidenti quali siano gli elementi portanti, la colonna vertebrale, le derivazioni e le suggestioni che vanno a convogliare nello script e nella sua trasposizione. Nel cuore pulsante di Un couteau dans le coeur c’è al contempo un’anima metacinematografica che vira verso il teorico (il porno con il filone del blue movies gay che va di pari passo con una visione più allargata proiettata verso il cinema tutto) e il serial-thriller old style che attinge a piene mani all’immaginario dell’epoca e dalla produzione di alcuni autori che lo hanno forgiato dall’interno. I rimandi al cinema di Argento e in primis a quello di De Palma sono cristallini, ma insufficienti a donare alla pellicola del cineasta francese quelle basi per amalgamare gli ingredienti di un’operazione che, al contrario, si rivela profondamente schizofrenica, persa nel tentativo di colui che l’ha concepita di fare coesistere la serietà del thriller con un mood più giocoso di natura marcatamente parodistica.
Il risultato non può che essere una maionese impazzita di colori acidi e saturati, impastati nella grana di una fotografia vintage, tenuta parzialmente insieme da una linea mistery che riesce quantomeno a tenere a sé l’attenzione della platea di turno. Ma questo non basta.

Francesco Del Grosso

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