Denaro morto
Tutti i soldi del mondo, ovvero il paradosso di un marchio. Un nome che si vorrebbe essere sinonimo di qualità ma che al contrario si va perdendo sempre più in un anonimato del tutto incapace di lasciare un qualsiasi segno persino nell’ambito più commerciale del cinema contemporaneo. Stiamo parlando, ovviamente, di Ridley Scott e della parabola artistica che lo ha portato ad essere mero esecutore scarsamente riconoscibile persino da parte dei suoi più incalliti esegeti. La perfezione della forma è divenuta la routine di un ottantenne ormai non più in grado di partorire qualcosa di originale; la capacità di innovare generi differenti ormai fa parte di un repertorio affidato agli storici della Settima Arte. Per tacere sulla sensibilità di scrutare all’interno di personaggi e situazioni narrative.
A proposito di Tutti i soldi del mondo – opera incentrata sul rapimento, avvenuto in Italia nel 1973, di John Paul Getty III, all’epoca rampollo di una famiglia statunitense straordinariamente ricca da parte di nonno paterno, quel John Paul Getty fondatore di un vero impero economico originato dal petrolio – si potrebbero usare tanti aggettivi per definirlo, ma forse frettoloso e stanco sono quelli che meglio riassumono il tenore del film. Il precipitare dello scandalo che ha coinvolto Kevin Spacey, inizialmente previsto per il ruolo del magnate, ha costretto Scott a rigirare ex novo le sequenze in cui era coinvolto la star del serial televisivo House of Cards, lasciandoci il rimpianto per una performance prevedibilmente istrionica che mai avremo il piacere di vedere. A sostituirlo il grande Christopher Plummer, attore eccellente ma poco credibile, da un punto di vista anagrafico, nell’interpretare anche flashback ambientati venticinque anni prima del tempo presente – appunto il 1973 – del film. Lo sguardo sull’Italia del tempo, poi, è inverosimilmente standardizzato secondo i peggiori criteri made in America. Luoghi comuni a iosa, con prostitute romane che vaticinano pericoli imminenti al giovanissimo Paolo Getty – nome così “italianizzato” – che puntualmente si verificano dopo pochi secondi. Una Calabria sede del sequestro tutta sole, canti e mangiate rappresentata come una sorta di enclave in mano alla ‘ndrangheta di turno. O anche la brevissima comparsa della famigerata stella a cinque punte di brigatistica memoria, utile solo a far pronunciare al vacuo ed inutile personaggio di Mark Wahlberg la “storica” frase sui “comunisti di merda“. E via continuando di stereotipo in stereotipo, attraverso un cast internazionale male assembrato che vede insieme, nella squadra dei rapitori, Romain Duris e Nicolas Vaporidis, con Marco Leonardi ad impersonare il boss indigeno di turno.
Si può solo intuire ciò Scott avrebbe voluto fare di Tutti i soldi del mondo. Un amarissimo apologo di respiro shakespeariano sulla rapacità fine a se stessa – il patriarca che rifiuta a lungo di trattare con i rapitori andando contro alle logiche aspettative di mamma Gail, intepretata da una, per una volta incolore, Michelle Williams – sul denaro che chiama inesorabilmente altro denaro, in un circolo vizioso in grado di lasciare solo cadaveri putrefatti ancora in vita. Ma a regnare invece è la noia di una continua coazione a ripetere priva di una qualsiasi destinazione autoriale, capace di soprassalti emotivi unicamente quando si concentra sul cinema di genere, come nelle sequenze dell’amputazione dell’orecchio al giovane Getty, le cui aspettative, conoscendo un minimo il cinema di Scott, avrebbero potuto essere persino più “forti”, oppure all’esemplare passaggio dei soldi tra due entità negative come il capitalismo più ottuso e la criminalità organizzata, simbolo precoce di un disfacimento morale divenuto, oggi, perfettamente normale. Inutile, a questo punto, discettare sulla bontà di fotografia e montaggio, nel momento in cui il film è già andato da tutt’altra parte rispetto alle previsioni maggiormente ottimistiche.
Curioso riflettere a posteriori su come, nella vita reale, il sopravvissuto al sequestro John Paul Getty III abbia poi interpretato per Wim Wenders nel 1980 il lungometraggio di culto Lo stato delle cose, salvo poi venir colpito da una malattia invalidante che lo costrinse a ritirarsi a vita privata sino alla morte, nel 2011. Inoltre il di lui figlio, Balthazar Getty, ha fatto parte del cast del magnifico Strade perdute (Lost Highway, 1997) di David Lynch, a coronamento di una onorevole carriera cinematografica e televisiva che prosegue tuttora. Storie di un cinema intrecciato alla vita che, purtroppo, non riguardano l’esito scontato di Tutti i soldi del mondo.
Daniele De Angelis