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Morto Stalin, se ne fa un altro

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VOTO: 6.5

Nudità del Potere

Una lezione di Storia, quella di Morto Stalin, se ne fa un altro. Virata però in chiave di commedia sulfurea. Si può? Probabilmente, vista la piega che stanno prendendo gli eventi globali al giorno d’oggi, si deve. E ci voleva il tipico umorismo british – in cabina di regia e come cosceneggiatore troviamo Armando Iannucci, nome italiano ma scozzese di nascita – per rendere in modo così ironico e graduale la discesa negli abissi di una casta unicamente attaccata ad un simulacro di potere.
Siamo nel 1953. Da oltre trent’anni Stalin ricopre cariche di alto livello nell’ambito del Comitato che regge le sorti dell’allora Unione Sovietica. Dopo una breve ma incisiva introduzione dell’oligarchia al potere, rappresentata nel film similmente ad un’allegra combriccola di buontemponi, dediti alla gozzoviglia quotidiana, ai film western americani di John Ford nonché a stilare terribili liste di proscrizione atte a decidere reclusione o morte di singoli individui, assieme alla registrazione di un concerto il dittatore riceve anche un biglietto di malaugurio scritto dalla giovane e affascinante pianista Maria Yudina (Olga Kurylenko). Quasi simultaneamente Stalin viene colpito da un micidiale ictus cerebrale che lo lascia privo di sensi. Il comitato tergiversa, perde tempo. I medici bravi sono stati tutti epurati e la morte di Stalin fa gola a molti. Cosa che puntualmente si verifica pochi giorni dopo. La lotta per la successione ha inizio.
Morto Stalin, se ne fa un altro ha dalla sua una pressoché perfetta modulazione del registro comico, sempre ad un passo dalla farsa e tuttavia nei limiti di una feroce allegoria sulle miserie di un Potere talmente sterile e fine a se stesso da suscitare quasi una pulsione di compatimento in chi osserva. Alla riuscita del film contribuisce senza dubbio un cast di gran livello e ben assortito, che provvede volutamente alla creazione di figurine monodimensionali capaci solo di agitarsi in virtù di qualche gradino in più nella scala gerarchica. Malenkov (l’ottimo Jeffrey Tambor della serie tv Transparent) successore designato, Kruscev (un irriconoscibile e quanto mai spiritato Steve Buscemi) che in seguito ricoprirà un ruolo di vertice, Molotov (bentornato Michael Palin, ex Monty Python) e soprattutto l’anima nera del regime Beria (plauso al caratterista Simon Russell Beale), artefice di massacri e deportazioni fino ad essere ritenuto dal Comitato capro espiatorio delle varie malefatte di regime e perciò giustiziato senza troppi scrupoli. Nomi che hanno fatto la Storia dell’Unione Sovietica dalla parte sbagliata, per l’occasione retrocessi ad esagitate figurine aventi in mano un potere sin troppo grande per le loro possibilità intellettive. Dalla visione di Morto Stalin, se ne fa un altro esce un ritratto amaro e senza edulcorazioni, nonostante i toni scelti, di un comunismo impossibile da realizzare proprio per l’umana tendenza alla rapacità, al continuo bisogno di essere sempre più in vista di qualcun altro. Una Storia universale che si ripete ad ogni latitudine e priva di esatta collocazione temporale, denotando nel film una totale sfiducia verso coloro che manovrano le varie leve di potere in alto loco. L’effetto satirico, insomma, arriva al proprio scopo; in special modo nel riuscito passaggio dalla risata a denti stretti fino al drammatico epilogo, dove si palesano inequivocabilmente tutti gli squallori di una dittatura giunta agli ultimi colpi di coda.
Ciò che funziona meno in Morto Stalin, se ne fa un altro è la regia piuttosto televisiva di Iannucci, sin troppo al servizio della bravura degli interpreti, ma pure uno script che procede a corrente alternata, tra momenti davvero brillanti ed altri abbastanza superflui che poco aggiungono all’economia di un lungometraggio comunque in buona parte riuscito. Per ricercare piccoli gioielli di sense of humour britannico intriso di cianuro converrebbe però recuperare oggetti cinematografici di antiquariato come lo splendido Pranzo reale (1984) di Malcolm Mowbray (ancora con la presenza di Michael Palin a fare da ideale congiunzione), riuscitissimo ritratto post-bellico di una borghesia disposta ad ogni compromesso per provare a ritrovare, inutilmente, la grandezza perduta. Altri tempi e ben altre ispirazioni, verrebbe da dire…

Daniele De Angelis

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