Ci vorrebbe un bambino
C’era una volta una saga cinematografica d’animazione nella quale i giocattoli prendevano vita sino a concepire una sorta di dimensione parallela rispetto a quella degli “umani”. Solo che questa non è una favola. Bensì Toy Story. Arrivata al quarto capitolo dopo un’attesa di ben nove anni rispetto al terzo. Ne valeva la pena?
La risposta risiede tutta nella complessità degli universi portati sul grande schermo dalla beneamata Pixar, come sempre in fausta cooperazione con la Disney dopo l’acquisizione da parte di quest’ultima avvenuta nel 2006. In Toy Story 4 non si tratta più di elogiare una regia – di Josh Cooley, a titolo di cronaca – articolata né più né meno al pari di un qualsiasi lungometraggio in live action. E neanche sottolineare, per l’ennesima volta, la perfezione estrema di una computer graphic che in alcuni momenti “scherza” con l’occhio spettatoriale sul fondamentale concetto di realtà percepita. Qui e nei capitoli passati la partita si è giocata e si continua a giocare su un altro campo: quello delle emozioni. Primarie e secondarie. Toy Story ha ormai raggiunto l’autonomia essenziale di un genere a sé stante, che si potrebbe davvero paragonare ad una corrente interna, tanto per fare un esempio teorico, della Nouvelle Vague (Truffaut, Rohmer, Rivette), se non fosse per la propria, intrinseca e geniale, capacità di mediazione verso la categoria dei più piccini. In Toy Story 4 giunge a felice compimento la cosiddetta “quadratura del cerchio”: il travaso cioè di un micro/macrocosmo adulto e consapevole in quello che, solo nelle premesse, dovrebbe essere composto da spensieratezza e gioiosa superficialità. Durante Toy Story 4, finalmente, si compiono scelte che magari definitive non saranno perché il mondo del giocattolo è piccolo e auto-referenziale; però si affrontano tematiche come amore e amicizia senza lesinare sul senso di cambiamento e perdita che le decisioni esistenziali talvolta comportano. Poi c’è la paura. Quella che scaturisce dall’ignoranza più innocente, dall’ingenuità della non conoscenza. Anche Toy Story 4, come del resto accaduto in alcuni capitoli precedenti presenta momenti transgenere, dove si sconfina nella classica “zona buia” o addirittura nella tensione totale. Ma tutto deriva dalla mancata comprensione di chi si ha di fronte, nella fattispecie una bambola psicologicamente malata di solitudine rispondente al nome di Gabby Gabby.
Tornano sul proscenio – ed era ovvio – Woody il cowboy-sceriffo sempre più eroico e Buzz, l’intrepido astronauta. Entrambi mossi da una precisa stella polare che si chiama onore e fedeltà alla causa del giocattolo votato alla soddisfazione del bambino/a che li possiede. Ma l’anima autentica di Toy Story 4 è femminile, poiché s’incarna – e il materiale fittizio diventa tessuto umano pulsante – in Bo Peep, pastorella in ceramica nonché autentica eroina tridimensionale ed impavida eroina ai tempi di #metoo. E se il plot di quest’ultimo segmento si avvita un po’ su se stesso forzando la mano sul recupero a tutti i costi del giocattolino preferito dalla piccola proprietaria umana Bonnie – peraltro figlia legittima delle tante produzioni Pixar tese ad esplorare con pedagogica attenzione il mondo dell’infanzia – da lei creato, ci si può tranquillamente passare sopra. Perché davvero, mai come in questo caso, il particolare conta in misura assai maggiore dell’impianto narrativo generale.
Lode allora incondizionata a quella tipologia di opere che, a dispetto di brutte parole quali target commerciale e categoria di appartenenza, sanno ancora dialogare con il cuore di coloro che le ammirano; con la precisa consapevolezza di aggiungere, per il solo atto di guardarle, un altra porzione di cammino al proprio percorso di crescita. Siano essi a maggior ragione infanti o adolescenti in formazione oppure adulti convinti di essere ormai belli e compiuti. Si ricrederanno.
Daniele De Angelis