Tre donne e un’eutanasia
Il cinema di François Ozon è un cinema palpitante di corpi, di sensualità, colti con uno sguardo carico di morbosità. Un cinema ossessionato tanto dai fisici acerbi, come quello, su tutte e tutti, di Ludivine Sagnier, quanto dal fascino di quelli maturi, vedi quelli di Charlotte Rampling o di Valeria Bruni Tedeschi. Nella centralità della fisicità, della carne, c’è spazio anche per la sua consunzione, per la degenerazione nella malattia terminale. Ozon la affronta per esempio con il cadavere intasato di salsedine di Sotto la sabbia, o con la storia del giovane Romain che si scopre malato di tumore incurabile e decide di rifiutare, le cure, in Il tempo che resta. Alle tematiche bioetiche il regista francese torna con Tout s’est bien passé (nella titolazione italiana È andato tutto bene), che gareggia per la Palma d’oro al 74° Festival di Cannes. Con questo film affronta un tema cruciale anche per la nostra società, quello della possibilità di decidere, per un malato terminale, di alleviare le sofferenze con quello che viene chiamato il suicidio assistito, o la dolce morte. Nel nostro paese ci sono stati vari casi di cronaca di questo tipo, come anche oltralpe, e quello raccontato nel film sembra ricalcare con lo stampino le storie nostrane. Al momento in cui era ambientato il film, in Francia era ancora in vigore la legge Leonetti, che non riconosceva il suicidio assistito per cui lo si doveva praticare recandosi in Svizzera.
Tout s’est bien passé è tratto dall’omonimo libro autobiografico della scrittrice Emmanuèle Bernheim, il racconto di come ha aiutato il padre a morire. L’autrice, a sua volta morta di cancro nel 2017, aveva collaborato alla sceneggiatura di alcuni film di Ozon. Il progetto di un adattamento del libro era già stato proposto al regista che, in un primo momento aveva declinato, ed era poi stato preso in mano dal collega Alain Cavalier, ma poi interrotto per l’improvvisa scomparsa della donna. Cavalier ha comunque realizzato un documentario su di lei, dal titolo Être vivant et le savoir. L’assenza della scrittrice ha poi indotto Ozon a tornare sui propri passi e realizzare il film.
Tout s’est bien passé comincia con André, un 85enne facoltoso, ex-imprenditore, che viene colpito da un ictus e ricoverato in ospedale. La sua condizione fisica è ormai compromessa, dovrà rimanere allettato e vivere come una larva e, preso dallo sconforto, chiede alle figlie di aiutarlo nella dolce morte. Una delle due, Emmanuèle, si rivolge così a un’associazione svizzera, “Morire con dignità”, che organizza l’ultimo viaggio dell’uomo in una clinica a Ginevra, dove gli verrà posto un bicchiere con una soluzione letale, che dovrà portarsi alla bocca con le proprie mani. Il tutto eludendo gli intralci delle autorità francesi. Va detto che Ozon rifiuta ogni schematismo manicheista in merito a un argomento per cui vi è un ampio dibattito. La signora dell’associazione svizzera per la dolce morte non appare così limpida. Si fa pagare il viaggio stesso per Parigi, per il consulto, e le sue parole spesso grondano di una grottesca retorica, come quando racconta dell’uomo anziano che, per amore di una donna più giovane, all’ultimo momento, aveva rifiutato la dolce morte. E, quando André viene a sapere dalla figlia l’ingente somma che è costata tutta l’operazione, si lascia andare in una risata isterica e beffarda. «Come fanno allora i poveri?» chiede alla donna che risponde sconsolata: «Aspettano di morire». Tout s’est bien passé è un film che si limita a impostare la tematica, lasciandola aperta, senza voler diventare mai un film a tesi. Così come si accenna alla religione: quella, ebraica, della famiglia dei protagonisti, e quella, musulmana, di uno degli autisti dell’ambulanza per la Svizzera. Quest’ultimo, una volta scoperto lo scopo della missione, si rifiuta di portarla a termine, mentre il suo collega, di origine africana, rimane possibilista.
Ozon esibisce impietosamente la senescenza, il disfacimento dei corpi, con un’impietosità pornografica. Il vomito continuo, il volto disfatto di André, o il momento in cui gli infermieri gli fanno fare la doccia, tenuto in carrozzina. A questi segni di decadimento profondo corrisponde il collirio di Emmanuèle: una senilità ancora agli inizi. Ma quello che interessa a Ozon è, ancora una volta, mettere in scena delle icone della celluloide, l’invecchiamento di corpi che hanno fatto la storia del cinema. Quelle figure che rimarranno eterne nelle vecchie pellicole, ma che ora vengono fissate anche nella loro terza età. Così il moribondo André porta il volto, difficilmente riconoscibile, di André Dussollier, il grande e brillante attore che ha attraversato il cinema d’oltralpe, uno dei simboli della Nouvelle Vague; sua moglie, ormai consumata dal Parkinson, è sempre quella Charlotte Rampling che Ozon aveva catturato negli ultimi attimi di conturbante bellezza signorile; l’ambigua donna svizzera, dell’associazione per la morte dignitosa, è Hanna Schygulla, la musa di Fassbinder, autore faro di Ozon. Ma soprattutto la protagonista, Emmanuèle, donna di mezza età alle prese con una scelta difficile per quel padre di cui riaffiorano i ricordi di un rapporto conflittuale, è nientemeno che Sophie Marceau, mito adolescenziale degli anni Ottanta e poi anche sensuale musa di Andrzej Żuławski. Non siamo lontani dall’operazione compiuta da Amour di Michael Haneke, con Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant. Ozon la fa in un’opera dove i riferimenti al cinema sono continui, anche nella figura del compagno di Emmanuèle, nella realtà il critico cinematografico Serge Toubiana, programmatore di una cineteca che sta lavorando a una rassegna su Buñuel.
Giampiero Raganelli