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Tori e Lokita

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VOTO: 7.5

Alla fiera dell’est

Tornano a Cannes anche i festivalieri Jean-Pierre e Luc Dardenne, la cui carriera è indissolubilmente legata alla Croisette, con due Palme d’Oro, per Rosetta e L’enfant, e vari premi collaterali. Da tempo ormai il mondo marginale degli ultimi, da sempre fulcro del loro cinema, è rappresentato da immigrati, costretti a combattere ogni giorno per un tozzo di pane, in Belgio come in tutti i paesi europei e occidentali ricchi, a combattere contro una burocrazia impietosa e priva di volto umano. Così anche per la loro ultima opera, Tori et Lokita, in concorso a Cannes 2022, i cui protagonisti danno il titolo al film, una ragazza e un bambino di colore, ufficialmente fratello e sorella, così almeno si qualificano. Lokita si presenta subito nel film che si apre con la ripresa, in primo piano, della sua intervista-interrogatorio dell’ufficio immigrazione. Le domande degli addetti sono incalzanti, severe e lei lascia molti dettagli indefiniti. Parla anche del fratello Tori, ma cade in contraddizione nello spiegare come si siano ritrovati. Sostiene di averlo riconosciuto in un orfanotrofio ma il racconto è lacunoso. Il legame tra i due protagonisti di colore rimane indefinito. Le autorità sono orientate a ricorrere all’analisi del DNA per stabilire se tra di loro ci sia effettivamente un legame di sangue. Certo è che la loro connessione, il loro rapporto affettivo sono intensissimi, fatti di aiuto reciproco nella giungla di una società che si reputa civilizzata. Il sentimento che gli unisce è l’unico in un mondo cinico, amorale come quello che i fratelli belgi raccontano in tutti i loro film.
L’amicizia tra Tori e Lokita è rappresentata da una canzone che cantano, benissimo peraltro, al ristorante italiano per cui lavorano, di fatto una copertura per traffici illeciti in cui i due protagonisti sono impiegati. Si tratta di Alla fiera dell’est di Angelo Branduardi che già nel titolo e nelle strofe principali allude al mercimonio, a un mercato ancestrale e alle transazioni economiche che governano il mondo, (“per due soldi / un topolino mio padre comprò”). Ma si tratta anche di una soave melodia di stampo mediorientale che riprende il canto pasquale ebraico Chad Gadya (che al cinema si ricorda nell’incipit di Free Zone di Amos Gitai), che sancisce il legame affettivo tra i due personaggi (lei usa la canzone come suoneria telefonica delle chiamate di lui), mezzo di sopravvivenza e resistenza all’interno di un’umanità gretta, avida e cinica. A parte loro due, nessuno si salva in Tori et Lokita. Non ovviamente i loro sfruttatori che li usano in traffici droga, non le autorità che rispondono sostanzialmente a logiche xenofobe e faticano a rilasciare alla ragazza i documenti, lasciandola quindi in uno status di stallo in cui non si può che vivere con attività illecite, non le associazioni di volontariato che dovrebbero aiutarla e la rimproverano di non averla vista in chiesa. E non si salva nemmeno la famiglia di Lokita: la madre che non le crede quando, disperata, si giustifica per non essere riuscita, per questioni oggettivamente contro la sua volontà, a inviarle la quantità di denaro solita.
La storia di Tori e Lokita è una canzone di due esseri umani, la loro lotta di sopravvivenza metropolitana. Come sempre straordinario il lavoro che i fratelli fanno con attori presi dalla strada tra cui spicca il bambino, Pablo Schils, che interpreta Tori. Un personaggio entrato già nell’età adulta, costretto ad abbandonare l’infanzia nelle sue dure circostanze di vita. È sempre lui a richiamare quanto spetta loro, la focaccia, i soldi per l’esibizione, quello che sembra una concessione da parte di soggetti cinici che si sforzano di esibire un barlume d’umanità. E i suoi disegni, che si vedono a un certo punto, mostrano anche una sua propensione artistica, al pari dell’esibizione canora di Alla fiera dell’est. Il consolidato neorealismo dei fratelli si coniuga con una seconda parte da cinema di genere, che si svolge in un’area degradata della città, una periferia industriale abbandonata, che ne rappresenta la parte nascosta quando non un suo specchio impietoso. Lokita lavora segregata nei sotterranei di uno stabilimento dimesso, adibito a laboratorio clandestino per la coltivazione di marijuana. E la loro rocambolesca fuga passerà lanciandosi su una tavola per scivolare sulla ghiaia di una gigantesca cava.
Il cinema dei Dardenne è indubbiamente ormai manierista, da anni ormai si perpetua stancamente, con il solito schema, senza avere sostanzialmente molto di nuovo da dire. Con Tori et Lokita ritrovano tuttavia una rinnovata freschezza, nel loro film indubbiamente più riuscito degli ultimi tempi.

Giampiero Raganelli

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