Il ritorno dei morti danzanti
Quello ottenuto alla 13esima edizione del Salento Finibus Terrae nel luglio 2015, ossia il premio come miglior cortometraggio della sezione “Ambiente”, è solo uno dei tanti altri riconoscimenti (circa una quarantina) raccolti da Thriller nel suo lungo e fortunato percorso nel circuito festivaliero (al momento si contano un centinaio di selzioni) iniziato nel febbraio del 2014 al Corto Movie Festival di Torino. Da quel momento la bacheca di Giuseppe Marco Albano è andata via via riempendosi di titoli prestigiosi, tra cui il David di Donatello di categoria. Bacheca, quella del giovane regista pugliese, già occupata dalle varie statuette e targhe conquistate con Il cappellino e Stand By Me qualche anno prima, pellicole che hanno preceduto l’esordio del 2011 nel lungometraggio con Una domenica notte. Proprio la proiezione e il premio ricevuto alla kermesse salentina ci hanno servito sul piatto d’argento l’opportunità di parlarne sulle nostre pagine; e aggiungiamo per fortuna, perché quella firmata dal cineasta di Cisternino è senza ombra di dubbio fra le opere più originali e artisticamente pregevoli della recente produzione breve made in Italy.
I meriti della riuscita del progetto non vanno però ricercati nei singoli, ma equamente suddivisi fra i diversi elementi drammaturgici e tecnici che lo compongono. Gli uni e gli altri mescolati sapientemente nei 15 minuti della timeline hanno permesso al corto di trasformarsi in una sorta di sistema di vasi comunicanti perfettamente funzionante e ben oleato. Il segreto di Thriller sta dunque nella fusione dei tasseli che vanno a comporre il “mosaico audiovisivo”; tasselli che, fondendosi, si completano, si influenzano e si sostengono reciprocamente. Questi albergano nelle solide basi messe a disposizione dalla scrittura, che non ha fatto altro che facilitare, valorizzare ed elevare il potenziale intrinseco del successivo lavoro dietro e davanti la macchina da presa operato da Albano e dagli interpreti chiamati a raccolta (uno su tutti Danilo Esposito nei panni del protagonista Michele). Una serie di fattori che, una volta assemblati, hanno finito con il portare sul grande schermo quella che in linea di massima dovrebbe essere considerata la ricetta ideale per la realizzazione di uno short con la “S” maiuscola. Trattasi di una ricetta che ha tra i suoi ingredienti basilari l’originalità e la forza di un’idea, entrambi però geneticamente predisposti a un adeguato sviluppo narrativo nell’arco temporale di un racconto breve, come quello richiesto dal genere in questione. Albano dimostra – e lo ha dimostrato anche in passato – di conoscerla e di saperla mettere in atto, a differenza di moltissimi altri colleghi che, pur partendo da un plot folgorante e a suo modo geniale, si sono persi per strada depotenzializando l’idea di partenza, saturandola o ancora peggio comprimendola sino a farla implodere drammaturgicamente. Al contrario, il regista pugliese mette insieme una serie di ottime intuizioni, trova il modo di farle coesistere sino a farle convergere in un plot che senza “guerre intestine”, passaggi a vuoto e perdite di ritmo, si avvia verso un finale che da solo vale il prezzo del biglietto.
Thriller ci porta sullo sfondo di una Taranto martoriata, provata dall’inquinamento e dall’incertezza per il futuro. Lì vive Michele, quattordicenne pieno di sogni e speranze che va in giro leggero a passo di musica, ballando come il suo idolo, Michael Jackson. Quando suo padre gli comunica che non potrà accompagnarlo a un provino per un talent show a causa di una mobilitazione nella fabbrica dove lavora, il mondo gli crolla addosso. Il sogno di un ragazzino, però, può essere più forte delle difficoltà degli adulti. E proprio grazie al giovane protagonista e al suo desiderio, la questione degli operai di Taranto risalterà mediaticamente agli occhi tutti, in un incredibile girotondo finale sulle note dell’omonimo storico brano del 1984 del compianto Jackson.
Sinossi alla mano, ancora prima della visione, è facile scorgere fra le suddette righe l’intuizione pluri-citazionista che è alla base dello script e della successiva trasposizione. Ci si trova così al cospetto di una sorta di Billy Elliot versione 2.0 in salsa tarantina, dove al palcoscenico di un grande teatro si sostituisce quello della vita di tutti i giorni tra le strade, i palazzi e le ciminiere di una provincia logora e piena di ferite aperte. Qui il mondo dei vivi e dei morti si incrocia in una danza di speranza che coinvolge esseri viventi e morti viventi, con Albano che si diverte a mixare senza soluzione di continuità il celeberrimo moonwalk a La classe operaia va in Paradiso di Petri, passando per i passi di Bad e soprattutto quelli visti nel videoclip cult diretto da Landis di Thriller. La carta vincente sta nell’avere fuso l’immaginario cinematografico a quello discografico, mettendolo al servizio di una storia che non può non riportare l’attenzione dello spettatore ai fatti dell’ILVA, al dramma della terra che ospita l’impianto siderurgico e alla gente che ci vive, ci lavora e ci muore da anni, crocevia di morte e sopravvivenza per migliaia di persone.
Francesco Del Grosso