Piccolo killer
Gregori è un uomo misterioso. Accoglie ragazze madri ed educa i loro figli, come farebbe un autentico padre, alla vita e non solo. Anche alla morte, visto che l’omicidio diviene parte integrante dei suoi insegnamenti.
Partisan (partigiano, di parte), opera d’esordio del giovane regista australiano Ariel Kleiman (classe 1985) è senza ombra di dubbio un lungometraggio intrigante, capace di porre sul tavolo argomenti tipicamente da dibattito tipo l’indottrinamento perpetrato da uomini dotati di un certo carisma nei confronti di menti in formazione o comunque più ricettive. Il sogno di Gregori, che si palesa sin dalle prime battute del film, è quello di creare un microcosmo a se stante, autosufficiente e basato sull’imposizione dolce delle regole da lui dettate: una sorta di “setta” dall’apparenza non estremista, in cui gli adepti – giovani donne e bambini – vedano nel leader una sorta di compagno o genitore pro-tempore, a seconda dei punti di vista. Un disegno che funziona, almeno sino al fatidico momento della presa di coscienza. Perché, ovviamente, Partisan è anche – e forse soprattutto – un racconto di formazione, per quanto atipico e originale. Un thriller psicologico che mette in posizione di contrasto un uomo che si è installato su un piedistallo nella stupida convinzione che la sua presunta intelligenza possa automaticamente metterlo in una condizione di superiorità e coloro che da lui stanno imparando, pronti tanto ad assimilare quanto poi a mettere in discussione le teorie del “maestro”. E se il film di Kleiman – il quale peraltro dimostra di avere idee molto chiare in sede di regia, con una gestione degli spazi e della profondità di campo semplicemente ammirevole, al pari del resto della direzione degli attori – si fosse concentrato unicamente su questo aspetto, astraendo in maniera chiara e inequivocabile il contesto, il risultato finale sarebbe stato decisamente migliore. Non a caso i momenti più pregnanti ed emozionanti del film sono proprio quelli in cui i ragazzi Leo e Alexander pongono in atto la loro ribellione di fronte a Gregori, a parole o con piccoli ma significativi gesti. Purtroppo però, a discapito della pellicola, giocano decisamente a sfavore alcuni fattori. Per cominciare l’ambientazione realistica – pur se non specificato, il luogo sembra uno dei paesi balcanici post-bellici degli anni novanta – avrebbe richiesto una contestualizzazione storica maggiormente accurata. Scelta che Kleiman non compie nel nome di una (presuntuosa) universalizzazione simbolica della vicenda narrata. Restano poi del tutto inspiegate le motivazioni sui nemici da eliminare per mano dei ragazzi, segnatamente per opera dell’adolescente Alexander: un’altra situazione che toglie linfa al pathos drammaturgico, lasciando il gesto dell’omicidio unicamente come atto (a)morale esposto al facile giudizio di chi lo compie. Essendo il film raccontato non solo dal punto di vista del bambino, ovviamente e giustamente all’oscuro di tutto, ma anche di quello degli adulti, ecco che il tacere su queste situazioni potrebbe apparire più una pigrizia di sceneggiatura che una decisione pienamente consapevole in fase di scrittura.
Restano in positivo, al di là dei limiti or ora esposti, l’ottima performance attoriale di un Vincent Cassel che pare nato per interpretare la parte di un Gregori tanto pronto a slanci di affetto quanto soggetto a scatti di severità improvvisi e credibili. Un protagonista/mattatore ben assecondato dal giovanissimo Jeremy Chabriel, un Alexander capace di lasciar trasparire, attraverso lo sguardo dolce e serio, una vastissima gamma di emozioni.
Se dunque Partisan è un film che nasce sotto il segno di un’ambiguità marcata – ed il bel finale sospeso è lì a ricordarcelo – c’è da sottolineare come il regista Ariel Kleiman difetti ancora nella perfetta gestione di un racconto ambizioso ai limiti del velleitario. Data la giovane età però il tempo non potrà che essere dalla sua parte…
Daniele De Angelis