Doppia identità
Uno dei temi maggiormente trattati al cinema – almeno negli ultimi anni – ma anche dei quali si sa ben poco, in realtà, è quello del transessualismo. Non si contano, infatti, ormai, le pellicole – sia italiane che estere – che hanno voluto raccontarci ognuna la propria versione di tale argomento. Al punto da rendere particolarmente alto il rischio di dar vita, ogni volta, sempre allo stesso prodotto e, soprattutto, di scadere in una pericolosa retorica. Fortunatamente, non sempre è così. Uno dei lungometraggi maggiormente interessanti a riguardo, che, proprio per il suo singolare sguardo sul tema, si differenzia da quanto realizzato in passato è They, opera prima della regista iraniana naturalizzata statunitense Anahita Ghazvinizadeh, presentato in concorso alla 35° edizione del Torino Film Festival.
J ha quattordici anni e vive con la sorella maggiore ed il fidanzato di lei. Non avendo ancora ben chiara la propria identità di genere, il ragazzo, grazie anche all’aiuto della famiglia, ha deciso di intraprendere una terapia ormonale mirata a rallentare la pubertà. Nel frattempo, si farà chiamare da tutti “they”, ossia loro: il ragazzo e la ragazza che coesistono dentro di lui.
Un’opera, dunque, particolarmente delicata, perfettamente in linea con ciò che si sta raccontando. Il percorso di crescita di J è tutt’altro che facile, ma, evitando ogni luogo comune e, soprattutto, ciò che più e più volte ci è stato detto, la giovane regista ha deciso di mostrarci il percorso del ragazzo come una delle cose più naturali che ci siano. Non vediamo, ad esempio, atti di bullismo da parte dei coetanei. Non vediamo ostruzionismo da parte della famiglia. Al contrario, ognuno sembra aver accettato la situazione del protagonista ed è disposto ad aiutarlo a trovare la propria strada. Una contaminazione di generi che va di pari passo con il fondersi di due differenti culture: quella statunitense e quella iraniana, da cui proviene il fidanzato della sorella di J. E così, mostrandoci un contesto tanto variegato quanto naturale ed accogliente, la Ghazvinizadeh è riuscita a mettere in scena un prodotto nuovo che non ha paura di affrontare il “già detto”, ma che, al contrario, vanta già una spiccata identità, oltra ad una buona maturità stilistica, con colori pastello ed una macchina da presa che, discreta e rispettosa, sembra volersi tenere quasi sempre a giusta distanza da ciò che viene messo in scena, prediligendo inquadrature attraverso finestre o da dietro porte o tende. L’unica pecca di un lungometraggio come questo preso in analisi è, forse, un ritmo un po’ troppo lento, non sempre in linea con ciò che accade sullo schermo. Ma, si sa, nessuno riesce, fin dalla propria opera prima, a centrare perfettamente ogni obiettivo. Poco male.
Non stupisce, dunque, il fatto che persino una regista del calibro di Jane Campion sia stata favorevolmente colpita dal progetto di They. Al punto da volerlo produrre. E, d’altronde, come darle torto? Malgrado piccole, naturali imperfezioni il lungometraggio in questione, infatti, lascia ben presagire interessanti sorprese future.
Marina Pavido