Amore che vieni, amore che vai
Se per anni – nel corso della sua non troppo prolifica, ma importante carriera – un documentarista del calibro di Claude Lanzmann ci ha più e più volte raccontato la tragedia dell’Olocausto, ecco che, improvvisamente, l’autore sembra voler focalizzare la propria attenzione su un altro grande dramma, stavolta tristemente contemporaneo: la dittatura nordcoreana, che da decenni ha privato i cittadini di ogni libertà individuale. E così, dunque, ha visto la luce Napalm, intenso e personalissimo documentario presentato Fuori Concorso al Festival di Cannes 2017, ma anche – nel medesimo anno – al Festival Cineuropa di Santiago de Compostela, oltre che alla 35° edizione del Torino Film Festival, all’interno della sezione TFF Doc/Viaggio.
Ci sono voluti anni prima che il mondo intero si rendesse conto dell’enorme portata della situazione in Corea del Nord. Soltanto chi ha avuto modo di vivere tutto ciò sulla propria pelle può comprendere appieno ciò che una dittatura del genere può comportare. Uno di loro è lo stesso Claude Lanzmann, che nel lontano 1958 ha avuto occasione di fare un viaggio di lavoro proprio a Pyongyang, per poi tornarci per ben due volte: nel 2004 e nel 2015. Fatta, dunque, una breve introduzione riguardante la situazione politica in generale, ecco che il lungometraggio prende una piega del tutto personale, con un nostalgico Lanzmann che ci racconta di un suo perduto amore nato proprio nel 1958 e finito nello stesso anno a causa della dittatura, ma mai del tutto dimenticato.
Come ben possiamo immaginare, non v’è molta libertà, in una città come Pyongyang, di effettuare riprese video o interviste. I filmati di cui Lanzmann in questo suo lavoro si è servito, dunque, sono più che altro materiale di repertorio o brevi spezzoni che ci mostrano impersonali panoramiche della città, oltre a momenti in cui vediamo lo stesso regista camminare per le strade della capitale o fermarsi all’angolo di una strada (con tanto di persone che, stupite, si fermano a guardare in macchina) a raccontare alla telecamera la sua singolare esperienza.
I momenti più intensi, che costituiscono il vero fulcro di un lavoro come Napalm ed in seguito ai quali il tutto assume una piega completamente diversa, sono, come già accennato, quelli in cui vediamo il regista raccontarci, a tratti commosso, del suo amore passato. Lucido nel ricordare ogni singolo dettaglio, senza dimenticare di condire il tutto, di quando in quando, con un sottile umorismo ed aneddoti divertenti, il cineasta si è dimostrato, ancora una volta, in grado di catalizzare l’attenzione dello spettatore per quasi due ore, senza che il suo racconto perda mai di tono.
La storia di due singoli, che, in Napalm, si fa storia universale e che da sola è sufficiente a rendere l’idea di ciò che è una dittatura come quella nordcoreana. Impossibile dimenticare, inoltre, il primissimo piano di un ormai anziano Lanzmann, che, assorto nei suoi ricordi dopo aver letto una commovente cartolina inviatagli dalla sua amata ormai lontana, distoglie lo sguardo dall’obiettivo della macchina da presa, quasi come se il pubblico non esistesse più e fosse arrivato il momento di riflettere tra sé e sé sui bei momenti passati.
Cos’è, dunque, un documentario come Napalm? Non un prodotto didascalico o impersonale, non uno dei tanti lavori che ci illustrano la difficile situazione politica di una nazione, bensì un intenso e doloroso racconto che sa ben sfruttare lo scarso materiale video a disposizione, ma che, grazie ad una particolare maestria, diviene comunque pregiata testimonianza di ciò che è stato, oltre che un’opera dal grande valore artistico. Segno che il cinema, se nato da uno sguardo maturo e consapevole, può assumere le più diverse forme possibili, senza mai perdere di pregio o intensità.
Marina Pavido