Che io sia maledetta
Psycho-thriller o psycho-horror? A voi l’ardua sentenza. Per quanto ci riguarda preferiamo rimanere in una zona neutrale, poiché nel caso di un film come The Wicked è difficile stabilirne l’esatta natura. Trattasi, infatti, di una fusione perfetta di generi, che rende pressoché impossibile una precisa collocazione in un filone piuttosto che in un altro. L’esordiente Yoo Young-seon mette la propria firma su un’opera very low budget che si muove con abilità lungo il confine che separa la componente mistery da quella orrorifica. E pensare che la visione delle prime sequenze tutto avrebbe fatto presagire tranne che un cambio così drastico di pelle come quello al quale il regista sudcoreano sottopone la sua prima fatica dietro la macchina da presa, sbarcata in quel di Udine per scuotere dal torpore il pubblico della 17esima edizione del Far East Film Festival.
Yoo porta sul grande schermo una vicenda maledetta che si consuma fra le stanze di un ufficio di un’agenzia di comunicazione di Seul. Al suo interno lavora una ragazza di nome Se-young che per i suoi strani e morbosi atteggiamenti viene tenuta a debita distanza da tutti i colleghi. La situazione degenera quando il capo le si mette contro e quando iniziano a girare voci circa una sua possessione diabolica. Cosa nasconde e soprattutto quelle voci saranno vere oppure no? Sta a voi scoprirlo. Quello che vi possiamo dire è che fra le fitte maglie di The Wicked è possibile leggere in maniera abbastanza chiara il tentativo da parte del regista di mettere in quadro una metafora della Società contemporanea e del cinismo imperante che la fagocita, causa di isolamento, incomunicabilità e anaffettività, Quella popolata da Se-young è una Società che partorisce dal suo ventre malato soltanto mostri e lei è una di essi.
A calarsi nei panni della protagonista troviamo una straordinaria Park Ju-hee, al quale va riconosciuto almeno il 50% della riuscita del film. La giovanissima e promettente attrice coreana si carica sulle spalle il peso di un personaggio complicatissimo e indecifrabile, capace di passare in un battito di ciglia dall’innocenza alla pura malvagità. La sua performance da faccia d’angelo con l’anima diabolica fa lievitare la prestazione dell’intero cast, andando ad arricchire la già ricca galleria di killer seriali apparsi al cinema. L’altro 50%, invece, va attribuito senza ombra di dubbio al regista Yoo Young-seon, del quale sentiremo sicuramente parlare anche in futuro. La sicurezza, la solidità e la ricchezza del suo stile denota già una grande maturità. Amante dell’horror italiano di grandi maestri come Bava e Argento, Yoo ne fa fonte d’ispirazione. La loro influenza scorre – con i debiti distinguo – nelle vene estetiche e drammaturgiche in maniera piuttosto cristallina, a cominciare dal disegno ambiguo dei personaggi sino alle scelte cromatiche (livida e contrastata, a limite del leggibile oppure virata in rosso), passando per la sapiente costruzione della suspense (vedi ad esempio la scena dell’entrata notturna di Se-young a casa del suo capo). Il regista si diverte a stuzzicare lo spettatore, ad accumulare tensione e a lasciarla latente sino a farla implodere. Si ha sempre la sensazione che debba accadere qualcosa e questo per lo spettatore è fortemente destabilizzante. Il risultato è una pellicola cinica e violenta, condita da lampi di shocker e da tocchi di humour nero che sfociano in un finale che sfiora il sadismo tipico del torture porne.
Francesco Del Grosso