Reazione a catena
Con Magical Girl, Carlos Vermut porta sul grande schermo un nuovo capitolo dell’eterno conflitto delle anime contro i propri nemici, in una “guerra” che si combatte da millenni nella mente e nel cuore di ciascuno di noi e con la quale la Settima Arte si è misurata sin dalla sua notte dei tempi. Il che non fa altro che aumentare in maniera esponenziale le aspettative dei fruitori di turno nei confronti di quegli autori che continuano a confrontarsi con il cinema cosiddetto “nero” e con quelle tematiche che normalmente animano i film iscrivibili di diritto nel suddetto genere. Attraverso di esso, infatti, è possibile parlare di amore, desiderio, ossessione e della relazione tra gli essere umani e il loro lato oscuro. La cinematografia spagnola, in tal senso, ha contribuito non poco alla causa attraverso il lavoro dietro la macchina da presa di registi come Amenabar, Fresnadillo, Balaguerò, Plaza, Bayona, Monzòn e Còrtez. Vermut entra di diritto in questa lista di nomi con la sua opera seconda, presentata alla diciassettesima edizione del Far East Film Festival di Udine nell’ambito dell’omaggio che la kermesse friulana ha deciso di dedicare al Sitges.
Al centro di Magical Girl c’è la storia di Alicia, una ragazza malata che sogna di indossare l’abito della sua serie giapponese preferita “Yukiko Ragazza Magica”. Il padre Luis farà di tutto per accontentarla. Ma il suo destino si intreccia con quello di Barbara, una giovane donna attraente con problemi psichici, e con quello di Damian, insegnante che ha chiuso con tutti, tranne che con il suo passato turbolento. I tre resteranno intrappolati in un mondo di ricatti, dove l’istinto e la ragione saranno tragicamente in lotta e così le loro vite cambieranno per sempre. Il poliedrico cineasta madrileno classe 1980, autore nel 2011 del pluri-premiato Diamond Flash, firma un caleidoscopio ricco di colpi di scena ad effetto che cambiano continuamente le carte in tavola. peccato che non siano sufficienti a tenere alta l’attenzione per le due ore circa di durata.
Lungo il percorso narrativo, che intreccia in un valzer di ricatti e sangue su piani temporali paralleli e sovrapposti i destini di tre personaggi apparentemente lontani, si verifica una perdita e una dispersione graduale della suspense e della tensione che, unita a una costruzione altalenante del ritmo, a conti fatti finisce con l’indebolire il racconto e di riflesso la sua trasposizione. Dal punto di vista della scrittura, ci troviamo così al cospetto di un compromesso tra cose buone (disegno e sviluppo dei personaggi) e altre che non lo sono, con una vittoria ai punti delle seconde sulle prime. Eppure Vermut se la cava bene sia nella direzione degli attori che nella regia tecnica. Ma se da un lato queste due qualità portano sullo schermo spunti, soluzioni stilistiche e passaggi emotivi degni di nota, dall’altro le stesse mettono ancora di più in evidenza le debolezze, le fragilità e le mancanze della sceneggiatura. Il regista iberico dimostra nuovamente di sapere sempre come e dove posizionare la macchina da presa per ottenere il meglio da ogni singola inquadratura, spesso passando anche per scelte stilistiche rischiose e azzardate. Probabilmente, questa sua capacità di rendere visivamente accattivanti e funzionali al racconto tutte le immagini che di volta in volta “partorisce”, gli viene dalle precedenti esperienze come fumettista per giornali come El Mundo. La storia ci insegna però che il sapere tenere in mano un pennello, non significa automaticamente sapere dipingere o essere un pittore. La cosa che non torna è che Vermut, nonostante la giovane età e le poche opere alle spalle, ha comunque dimostrato di sapere fare entrambe le cose. Per questo, rimandiamo qualsiasi giudizio sul suo operato quando avremo modo di vedere l’opera terza.
Francesco Del Grosso