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Il terzo omicidio

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VOTO: 9

Così è (se vi pare)

La verità. La colpa. La giustizia. I tribunali. E, non per ultimo, il rapporto tra genitori e figli. Lungometraggio particolarmente complesso e stratificato The Third Murder (Il terzo omicidio, nella versione italiana), ultima fatica dell’acclamato cineasta giapponese Kore’Eda Hirokazu, presentato in concorso alla 74° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, nonché uno dei titoli maggiormente attesi di tutto il festival. Un lungometraggio con il quale vediamo il regista cimentarsi con un genere per lui nuovo – quello del thriller – ma che riesce a gestire alla perfezione dando vita ad un’opera profonda e dolorosa, poetica ed introspettiva, in cui, ovviamente, non mancano le costanti di tutta la sua ricca filmografia.
La vicenda prende il via da un omicidio: un omicidio efferato, probabilmente premeditato. L’omicidio di un uomo – apparentemente a causa di problemi lavorativi – da parte di Misumi, un suo dipendente. Sarà compito del brillante avvocato Shigemori difendere l’assassino. La verità, però, si rivelerà essere ben diversa da come le cose possano inizialmente sembrare. Ed ecco entrare in gioco anche la figlia adolescente della vittima, la figlia dello stesso Shigemori e, non per ultima, la figlia di Misumi – o meglio, il ricordo di lei.
Ognuno dei personaggi sembra inizialmente avere un ruolo ben preciso. Salvo, poi, assistere ad un improvviso ribaltamento dei fatti. E poi ad un altro. E ad un altro ancora. Al punto da non riuscire mai a sapere chi sia veramente l’assassino e quale sia stato il reale movente dell’omicidio. Ma è davvero la soluzione del giallo la finalità ultima di questo lungometraggio di Kore’Eda? C’è realmente il bisogno di dare un nome al colpevole, oppure quello che qui viene messo in scena è ben altro? Ciò che il maestro giapponese qui ci racconta è la verità che ognuno di noi percepisce, l’idea che ogni essere umano ha del mondo. E il fatto che non è e non sarà mai una sentenza di tribunale a stabilire cosa sia vero e cosa no. Ed ecco che sapienti inquadrature che vedono i protagonisti riflessi attraverso vetri, volti che si sovrappongono e sghembi plongés che stanno a mostrarci lo spaesamento dei personaggi stessi diventano i cavalli di battaglia di The Third Murder, ulteriore conferma da parte di uno dei più interessanti e prolifici autori asiatici contemporanei.
E poi c’è il rapporto genitori-figli, costante di tutta la cinematografia di Kore’Eda. Rapporto non facile, spesso fonte di pesanti sensi di colpa che, a loro volta, generano un forte desiderio di espiazione ed altrettante colpe. I tre uomini protagonisti non sono realmente riusciti nel compito di crescere le loro figlie, in modo da prepararle ad affrontare il mondo e le sue brutture. Non a caso il regista ha deciso che due delle tre ragazze (le uniche due che vediamo realmente) debbano essere afflitte – in modo molto simbolico – da problemi di deambulazione. Letto da questo punto di vista, il lungometraggio, dunque, può essere anche classificato come la storia di tre padri e tre figlie, dove nessuno, alla fine, sembra “salvarsi” e dove il senso di inadeguatezza e la paura di non riuscire ad essere dei bravi genitori messi in scena nei bellissimi Father and Son e Ritratto di famiglia con tempesta vengono portati all’esasperazione. Fino ad arrivare ad un punto di non ritorno.
Ed ecco che il Kore’Eda apparentemente più “atipico” si rivela essere, in realtà, lo stesso Kore’Eda che tutti abbiamo fino ad ora amato ed apprezzato. Solo, se vogliamo, con maggiore voglia di sperimentare. Un Kore’Eda che come non mai sa leggerci dentro, rapirci, confonderci, spiazzarci. Un Kore’Eda di fronte al quale ci sentiamo piccoli piccoli. Ma del quale, in fin dei conti, non ne avremo mai abbastanza.

Marina Pavido

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