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Ritratto di famiglia con tempesta

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VOTO: 8

Tifone divino

Nella mentalità ancestrale dei giapponesi c’è un legame forte con il vento cui si attribuisce un ruolo salvifico, che risale a un leggendario tifone che avrebbe spazzato via la flotta mongola di Kublai Khan nel 1281, salvando così il paese da un’invasione e mantenendo il mito della nazione che non ha mai subito un’occupazione straniera fino a quella americana del dopoguerra. Vento ricordato come il vento divino, kamikaze, nome che significativamente venne assegnato ai piloti suicidi della Seconda Guerra Mondiale. E il tifone, anche in questa storia di riunificazione famigliare, assume un significato catartico per i protagonisti del film.
Il cinema di Hirokazu Kore-eda è un cinema contemplativo, dei riverberi della vita, come lo stesso regista ebbe a dichiarare in occasione del suo film Still Walking, film che si avvicina molto a questo Ritratto di famiglia con tempesta anche solo per avere in comune due degli attori protagonisti, uno dei quali (Hiroshi Abe) porta pure lo stesso nome, Ryota, in entrambi i film: “Nel corso della giornata, apparentemente tranquilla come un mare piatto, la marea sale e scende, e piccole onde increspano costantemente la superficie. In questo film ho contemplato e ritratto quelle piccole onde che riemergono nel corso di una vita. Non ci sono tempeste. Viene rivelato solo quello che precede e segue un evento drammatico. In altre parole mi sono concentrato sulle premonizioni e sui riverberi dell’esistenza, perché sono convinto che sia lì che si nasconde l’essenza della vita”. E in questo film, già dal titolo capiamo che ci troviamo appena dopo una tempesta, la morte del padre del quale sono da poco stati celebrati i funerali. E ancora si preannuncia l’imminente arrivo di un tifone, in questo caso reale, il n⁰ 24, in una zona particolarmente soggetta a questo tipo di intemperie, come si evince dai continui bollettini alla radio, gli stessi che presagiscono, intervallando tutto il film, il nuovo evento atmosferico. Eventi che lasciano traumi, segni proprio come le tempeste della vita. Mentre il protagonista, Ryota, sta salendo il ballatoio per raggiungere la casa della madre, si sentono gli annunci delle ricerche finora vane di un uomo scomparso durante l’ultimo tifone, un uomo di alta statura che sembra proprio lo stesso Ryota, l’attore Hiroshi Abe, di altezza decisamente elevata rispetto alla media degli uomini giapponesi. Il che suona da enunciazione di come il protagonista sia collocato tra due tempeste della vita.
Ryota, che viene presentato nei titoli di testa mentre è in metropolitana, è una figura triste, un pasticcione, quello che potrebbe essere considerato un perdente. Uno scrittore fallito, il suo ‘best seller’ porta il titolo significativo “La tavola vuota”, mentre il mondo editoriale gli propone solo di sceneggiare manga. Per vivere lavora in un’agenzia investigativa, pedina persone, cosa che fa con il collega in modo spregiudicato: fa ricatti con foto compromettenti e non esita a spiare la sua ex-moglie, nell’ansia di scoprire suoi eventuali nuovi compagni, con la quale è sempre indietro nel saldare gli alimenti. Un matrimonio fallito e un figlio che fa da spola tra un genitore e l’altro. Ryota si arrabatta come può. Cerca di piazzare i gioielli di famiglia, chiede prestiti a destra e manca. Ma si capisce che lo stesso padre defunto era fatto della stessa pasta. Sarà proprio nei luoghi della sua infanzia, nel parco giochi vicino alla casa dove è cresciuto, a trovare il riscatto. In un nascondiglio a forma di polipo, durante l’interminabile e violenta tempesta. In quella furia degli elementi, spesso usata nel cinema giapponese in una concezione dell’ambiente e della natura come estensioni dei personaggi stessi. Riscatto che passa anche per una riconciliazione con la ex-consorte, non un ricongiungimento come spererebbe la madre. Tant’è che lei, nel rinnovato clima di rapporto amichevole, sottolinea ironicamente gli alimenti arretrati che ancora le deve. Il legame famigliare c’è, e viene comunque riconosciuto come il frammento di cordone ombelicale conservato rinsecchito. La vita di Ryota sembra come la pianta di mandarino che ha seminato da bambino e che ancora è sul balcone della mamma: non fa frutti, ma ci sono bruchi che saltuariamente diventano farfalle. I frutti e gli obiettivi della vita non necessariamente devono essere quelli prefissati, che ci si aspetta che siano.
Kore-eda compone, con Ritratto di famiglia con tempesta, un nuovo capitolo dei suoi affreschi sulla famiglia nipponica, che costruisce con un rinnovata delicatezza e lievità. Una tipica famiglia monca, mancante di uno dei suoi componenti, come nella tradizione del cinema classico di Ozu. Una piccola casa, culla del nucleo famigliare, non tenuta ben in ordine. Oggetti sparsi nel pavimento e una bottiglia nell’angolo dell’inquadratura, un po’ come nelle composizioni di immagini di Ozu. La vita che scorre, la preparazione quotidiana del cibo, le vecchie canzoni sul giradischi che portano malinconia (ancora come in Still Walking), l’incenso che ricorda il padre/marito che non c’è più, il bagno nella tinozza, la riunione famigliare a letto. La vita è questo, è fatta di queste cose, così come la sala multicolore di pachinko o la granita fatta in casa che bisogna scalfire perché è ghiacciata troppo compatta. La vita è semplice, dice la saggia madre, per poi commentare con autoironia “Ho detto una cosa profonda”. Il cibo va cotto lentamente, per amalgamare gli ingredienti, che sono come le persone, nei rapporti umani, sottolinea ancora l’anziana signora. E Ryota le suggerisce, a lei che è da poco tempo vedova, di farsi nuovi amici per avere compagnia, ma lei ribatte che frequentare coetanei a quell’età vuol dire solo nuovi funerali in vista. Nuovi tifoni, tanti tifoni, che si susseguono nella vita. E il bambino raccoglierà un biglietto per terra, nel disordine del dopo-tifone, pensando erroneamente che si tratti di un biglietto della lotteria. Ma è pur sempre la lotteria della vita.

Giampiero Raganelli

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