Brandelli di vita
«Ispirato a storie vere» si legge all’inizio dell’ultimo lavoro di Sebastiano Riso ed effettivamente questa percezione la si ha mentre la vicenda si dipana di fronte agli occhi. C’è tanta realtà nel rapporto che Maria (Micaela Ramazzotti) e Vincent (Patrick Bruel) hanno, quel tipo di vita vissuta in cui si è già innescata la deriva dell’amore malato. Lei si presenta con escoriazioni, desiderosa di affetto quantomeno; lui come un uomo ombroso. Non si intuisce, infatti, immediatamente quale sia il ruolo di lei, di una donna che ancora sogna di poter creare un progetto di vita insieme e che, invece, è “usata” per il suo corpo. Non le è concesso, ad esempio, di procreare un figlio per sé, per essere una famiglia loro. I due, dopo aver tagliato i ponti con le rispettive famiglie, «conducono un’esistenza appartata nella Roma indolente e distratta dei giorni nostri, culla ideale per chi vuole vivere lontano da sguardi indiscreti» (dalla sinossi). Ci si trova davanti a una coppia chiusa in se stessa e in cui si innesca la dinamica del più forte tra i due.
Una famiglia non ha paura di mostrare fino a che punto l’essere (dis)umano possa arrivare a controllare la donna con cui vive (è difficile dire: che ama) e va dato atto ai realizzatori di esser stati coraggiosi nel metter a tema un tasto su tutti attuale, ma ancora tabù: la vendita di minori/neonati a coppie che non possono avere figli. A ciò si aggiunge la scelta di inserire anche una coppia omosessuale con la sua voglia di avere un piccolo da crescere. Purtroppo, però, questa seconda opera del regista catanese non decolla principalmente a causa di problemi di scrittura (talvolta ci sono battute poco felici e qualche caduta di coerenza narrativamente parlando); non si può, d’altro canto, affermare che non ci sia padronanza del mezzo cinematografico. A fine visione, ciò che più resta sono alcune inquadrature, un piano sequenza legato a un atto di sopraffazione da parte di Vincent in cui l’obiettivo (e noi con lui) esce dalla finestra dell’appartamento, ritrovandosi all’esterno e da lì soprattutto ascolta. «Sincerità e discrezione sono alla base del mio approccio alla messa in scena: senza risultare invadente, volevo essere presente, sempre accanto a Maria», ha spiegato Riso. «La macchina da presa è sempre presente in scena, fisicamente addosso ai protagonisti, operata interamente a mano e pronta ad accompagnarli nella loro performance. Una macchina da presa che volerà via durante una scena cruciale e violenta, in modo da riflettere sulla nostra indifferenza, sul nostro essere ciechi e sordi al dolore che ci circonda, alla violenza che si consuma nell’appartamento accanto al quale viviamo» (riferendosi a ciò che accennavamo sopra).
Si passa così dalla realtà tangibile dei dialoghi a quella stilizzata e metaforica con sguardi che si perdono/meditano e una messa in scena (compresi gli abiti) parlante; ma questa compresenza di piani è delicata e non sempre semplice da raggiungere.
Peccato per l’occasione un po’ mancata. Una famiglia è stato presentato in Concorso alla 74esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Maria Lucia Tangorra