Il peso del silenzio
«Ho dato tanto di me stessa a questo personaggio», ha dichiarato Charlotte Rampling nel corso dell’incontro stampa svoltosi a Milano. Effettivamente, al di là della conferma che arriva dal regista, Andrea Pallaoro, non riusciremmo a immaginare Hannah senza il volto e il corpo di quest’attrice, che si è completamente donata alla donna che andava a incarnare (non a caso è stata premiata con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia). Tutto parte dall’arresto del marito (il motivo volutamente ci viene nascosto fino a quando sarà suggerito più avanti), con una donna – anziana – frantumata da questo accadimento, la quale fa i conti dentro di sé, è come se interiorizzasse tutto, senza restituire alla platea di turno la reazione che ci si aspetterebbe.
Il regista trentino (co-sceneggiatore con Orlando Tirado) “riempie” l’inquadratura con sguardi e silenzi di Hannah, lasciando degli interrogativi insoluti al pubblico; sceglie di dar spazio a una donna nella sua routine, concedendoci (e concedendole) qualche momento di cedimento; eppure tutto sembra scorrere nella quotidianità. Va riconosciuto a Pallaoro il coraggio nel taglio che ha scelto di dare a questa storia; a tratti documentaristico in quanto la macchina da presa entra nelle stanze fisiche e interiori di Hannah, come se vi bussasse ogni giorno. Purtroppo, però, per quanto la Rampling si sia buttata a capofitto nel darle spessore, l’andamento ripetitivo (da routine) e senza forti evoluzioni drammaturgiche non aiuta nella fruizione né sul piano del coinvolgimento emotivo.
L’obiettivo della macchina da presa insiste anche sul corpo di Hannah, creando un “classico” gioco di specchi, che riporta lo spettatore al punto focale: l’io di Hannah, con la differenza che per la maggior parte del tempo non viene esteriorizzato.
«Abbiamo cercato un modo sensoriale ed emotivo di entrare nel personaggio», ha dichiarato il regista, autore di Medeas. Se l’intento era quello di farci sentire “ingabbiati” nel trascorrere dei giorni e nelle relazioni interrotte (vedi il non rapporto della protagonista col figlio) allora questo è riscontrabile in Hannah. A malincuore, però, si ferma lì rispetto alla presa su chi c’è al di là dello schermo – tenendo conto delle potenzialità e delle aspirazioni sottese al progetto.
Nota a margine: «Hannah prosegue una sorta di indagine sul confine tra l’identità individuale e quella sociale (in questo caso di coppia): una ricerca che credo faccia parte di uno studio più ampio, un mio interesse personale che già si affacciava in Medeas, dove la tragedia nasceva dall’impossibilità del protagonista, un padre, di affermare il proprio bisogno di controllo, e quindi il ruolo in cui si autoidentificava all’interno della famiglia». Pallaoro a fine estate inizierà a girare il secondo lungometraggio, intitolato Monica, della trilogia in cui si vuole dar voce a protagoniste femminili.
Maria Lucia Tangorra