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Gatta Cenerentola

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VOTO: 7.5

Memoria e riscatto

Vittorio Basile, parafrasando uno dei celebri film presentati a Venezia, è un folle sognatore. Vuole bene alla sua città, alla sua Napoli, ed è disposto a fare il possibile per rilanciarla in ottica turistica. Il porto cittadino, secondo lo scienziato, ha bisogno di un rinnovamento strutturale, puntando su nuovi progetti che esulano dallo scambio di merci da tutto il mondo. La risposta ideale è di unire tradizione con le nuove tecnologie, in quello che si definisce il Polo della Scienza e della Memoria, un’idea stravagante e inedita ma che può riportare luce in un capoluogo spesso descritto dalla cronaca come un luogo sottomesso alle dinamiche criminali. Il piano non va a genio alle grosse organizzazioni camorristiche, che osservano con preoccupazione la tenacia di un solo uomo. Tutte le loro attività illecite vengono messe a rischio da Vittorio e la sua nave Megaride, rimasta collegata sul molo da oltre 15 anni. Salvatore Lo Giusto, conosciuto da tutti come ‘o Re, non ha altre soluzioni che combinare un matrimonio con Angelica Carannante, mantenendo inalterato il complesso portuale. Non sarà una passeggiata, perché saranno proprio la figlia Mia e l’agente Primo Sparito, cercando di mantenere viva la speranza per una società sempre più indifferente e irrispettoso verso il prossimo.

C’è un filo conduttore che collega il primo lungometraggio animato L’Arte della felicità e quest’ultima produzione della Mad Entertainment, Gatta Cenerentola, presentata in Orizzonti alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia. Oltre alla comparsa velata del personaggio centrale della precedente opera di Alessandro Rak, Sergio e Mia condividono una condizione drammatica. La convivenza con il ricordo di una persona scomparsa è in effetti un elemento che, seppur con gradazioni differenti, è presente fortemente in questi due film. Il primo, più intimista, vede il protagonista con la folta barba bruna alla guida di un taxi che sfreccia per le strade napoletane, dove ogni giorno deve confrontarsi con il lutto che coinvolge il fratello, partito in Tibet e con il quale interagiva per mezzo delle nuove tecnologie. Il secondo, invece, ha voluto allargare gli orizzonti, raccontando una condizione che non è solo individuale, ma riguarda tutti indistintamente. La ragazzina, sulla soglia della maggiore età, possiede un carattere complesso, fragile ma allo stampo vigoroso. Anche lei si trova a relazionarsi con la morte nel periodo più delicato della vita, in un contesto come quello campano dove per sopravvivere è necessario compiere scelte drastiche.
La particolarità di questo lungometraggio è di usare l’animazione, uno stile che di per sé conduce verso mondi narrativi incantati e di contrasto rispetto alla realtà, descrivendo dinamiche quotidiane. Si parla di riciclaggio, di narcotraffico, di prostituzione, ma lo sguardo di chi osserva viene costantemente ingannato dalla plasticità dei soggetti. I personaggi sono essenzialmente di finzione, come di finzione è il paesaggio che assume gradualmente un colore sempre più oscuro, grazie alla cenere sullo sfondo a sottolineare la decadenza del luogo. La stessa tecnologia, con gli ologrammi che riecheggiano i ricordi passati di ciascun individuo, porta sulla cattiva strada, creando una situazione che richiama i classici film di fantascienza, con i cartelloni pubblicitari che in aria esprimono una società oppressa e senza speranza. Sono le relazioni a mostrare quanto di più vero Gatta Cenerentola illustra egregiamente per tutto l’arco narrativo: il rifiuto di cambiare la condizione di partenza e l’illusione di un futuro migliore. Come nei più importanti film di Miyazaki, solo la nuova generazione, i più giovani e puri possiedono la chiave (o la scarpa) per portare ordine nell’universo, sporcato e deturpato dalla ingordigia e dal desiderio di potere dell’uomo.
Gatta Cenerentola rappresenta quanto più ci si aspettava da un film d’animazione maturo. Un’opera che riporta alla mente le dinamiche criminali di Gomorra ma con un punto di vista anomalo, come accade nella nave in “Novecento” di Baricco. E riesce su entrambi i fronti.

Riccardo Lo Re

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