Home Festival Cannes The Old Oak

The Old Oak

41
0
VOTO: 7.5

Shukran

Il gestore di un pub cerca di sistemare il suo locale, in un edificio grigio, dall’aria fatiscente. Con una lunga asta cerca di raddrizzare la K finale dell’insegna The Old Oak, lettera che rimane claudicante. Segno dell’incertezza, di un degrado inarrestabile, insostenibile. Scena posta all’inizio, e immagine simbolo, di The Old Oak, l’ultimo film di Ken Loach, presentato in concorso a Cannes 2023. Sappiamo cosa aspettarci da un cineasta militante che rimane coerente in una carriera iniziata negli anni Sessanta. Un regista che è come un sismografo in grado di captare le aree del nuovo disagio, di percepire ogni sofferenza sociale ove si manifesti. Con The Old Oak, Loach torna nel Nordest inglese, dopo Io, Daniel Blake e Sorry We Missed You, per raccontare di una realtà desolata e depressa, degli ex-villaggi minerari. Una situazione subito presentata come in forte recessione e in balia della svalutazione immobiliare. C’è chi lamenta di aver pagato la casa cinque volte di più del suo valore attuale.

La popolazione rievoca i tempi orgogliosi degli scioperi, delle rivendicazioni sindacali. Le foto delle agitazioni sono appese come quadretti, stile Overlook Hotel, nelle pareti dell’unico pub rimasto, quel The Old Oak dalla K che pende. Un periodo di lotta ma ora non c’è più nemmeno quello, le attività minerarie sono ormai state dismesse da decenni. Alle vecchie si aggiungono le nuove povertà. Nel paese compaiono donne velate che si mescolano alla popolazione, come un po’ dappertutto in Europa. Fanno parte della comunità dei rifugiati siriani, tra cui spicca la figura di Yara, giovane e bella donna, non velata, abile fotografa, che stringerà un’amicizia e un’alleanza, con TJ, ovvero il gestore del pub di cui sopra.

Quello di Loach è un cinema necessario, anche se semplice e diretto, anche se, come in questo caso pecca di ingenuità. Basta guardarsi attorno per vedere come le comunità marginali, quando entrano in contatto, tendono a confliggere in una guerra tra poveri piuttosto che allearsi. TJ sembra l’alter ego mancato del pizzaiolo di Fa’ la cosa giusta, in una variante buonista del film di Spike Lee. Vero, principi di ostilità, e razzismo strisciante (secondo il classico motto “Non sono razzista, ma…”), si manifestano ma vengono abbastanza facilmente superati in ossequio al principio di fare fronte comune secondo il principio “Se mangiamo insieme restiamo uniti”. Edulcorata è anche la figura della stessa Yara, una donna bella e molto intelligente.

La fotografia della protagonista, diventa un tessuto connettivo del film. Dalla rottura del suo apparecchio, per un dispetto di un abitante, si innesca la trama del film, la necessità di aggiustarlo come riparazione del torto. Le fotografie d’archivio degli scioperi del passato, appese alle pareti del pub che assume così il ruolo di museo, custodia della memoria, rimangono a monito per una comunità. Nuove immagini fotografiche saranno scattate per le nuove situazioni di disagio, all’insegna di sentimenti di solidarietà e resistenza. La parola araba shukran, che significa grazie, imparata dalla gente semplice del luogo, sancisce l’avvicinamento delle due comunità. Tutto molto semplice ma di una semplicità chapliniana – ora dovremmo dire anche kaurismakiana –, alla quale Loach sa portarci con sospensione dell’incredulità. La vera vecchia quercia è lui, il compagno rimasto fedele agli ideali, che non manca di farci notare come la cattedrale non appartenga alla Chiesa quanto ai lavoratori locali che l’hanno costruita.

Giampiero Raganelli

Articolo precedenteThe Zone of Interest
Articolo successivoPerfect Days

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

quattro × quattro =