Il cuore malato dell’Europa
Nel personaggio di Daniel Blake vi è innanzitutto un essere umano tratteggiato a tutto tondo, che pulsa di vita sullo schermo con una immediatezza tale da porre in evidenza quella speciale sinergia, da cui tale parabola ha preso forma: l’umanesimo di matrice progressista del solito, indomabile Ken Loach, sì, ma di rimando anche la bravura dell’interprete chiamato ad impersonarlo e, non ultimo, il lavoro come sempre calibratissimo di Paul Laverty in fase di sceneggiatura. E così la vicenda narrata, che coinvolge per l’appunto un cinquantanovenne proletario inglese messo in ginocchio dalle storture di uno stato sociale sempre più cinico, inefficace, portato a equiparare le persone a semplici voci statistiche, a numeri da gestire, a conti da far quadrare (anche sulla pelle di qualche innocente), diviene per forza di cose emblematica. Lo scompenso cardiaco di cui soffre il povero Daniel Blake non riguarda più solo lui. Riguarda l’intera collettività, ovviamente divisa in chi può esprimergli solidarietà, con l’aggiunta magari di qualche piccolo aiuto concreto, e in chi invece si schiera per questioni di comodo dalla parte di istituzioni che pongono in secondo piano la vita stessa dei cittadini, mercificandola e anteponendo a essa i più squallidi interessi di natura economica. Sottoposto a tanto stress, il cuore di Daniel Blake potrà forse cessare di battere. Ma a quel punto saremo in tanti a collassare assieme a lui. Perché è il cuore malato dell’Europa che parla. Il cuore di un’Europa che è stata riconfigurata anni fa quale mera convergenza di interessi finanziari, soffocando così nelle morse di un capitalismo sempre più indifferente e spietato le più profonde istanze culturali e sociali, il valore stesso di ogni singolo essere umano.
Vien da sé che Io, Daniel Blake sia uno dei film più importanti realizzati in Europa negli ultimi anni. Premiato all’ultima edizione del Festival di Cannes con una meritatissima Palma d’Oro (ma noi il maestro inglese lo avremmo già premiato un paio di anni fa per Jimmy’s Hall, a voler mettere i puntini sulle i), che per l’autore rappresenta la seconda in carriera dopo Il vento che accarezza l’erba, il film di Ken Loach segna un significativo ritorno alle tematiche, ai meccanismi narrativi, al modo di rappresentare le lotte che pellicole indimenticabili come Riff Raff (1991), Piovono pietre (Raining Stones, 1993) e Ladybird Ladybird (1994) avevano saputo esprimere alla grande. Una riproposizione, ma anche un aggiornamento. Poiché la realtà che qui si va ad indagare sembra essersi ulteriormente incattivita, depauperata e avvilita, da allora. Tutto ciò, per quanto ci siano magari nuovi sistemi informatici a far apparire falsamente “gentile”, neutro e moderno un modello di tutela e di contributi sociali, che, al contrario, perde di vista sempre più spesso le reali necessità degli assistiti, in favore di crudeli trappole burocratiche e delle decisioni così frequentemente arbitrarie prese dai funzionari di turno, quelli dotati di scarsa empatia, per i quali la carriera e lo sfoggio della propria autorità contano molto più del benessere altrui.
In una cornice del genere si inserisce l’odissea dello sfortunato Daniel Blake, interpretato con dignità immensa dal bravissimo Dave Johns, ovvero un carpentiere di Newcastle che al sopraggiungere di gravi problemi cardiaci dovrebbe ricevere un sostegno statale, non essendo più in grado di lavorare. Ma negli uffici competenti si finisce per incontrare gente superficiale, arrogante, tesa a soddisfare le aspettative di altrettanto cinici dirigenti votati dal canto loro a chiudere il rubinetto delle sovvenzioni pubbliche, più che ad aiutare persone realmente in difficoltà. Succede perciò che per un’assurda, kafkiana applicazione delle norme recentemente introdotte a Daniel venga negato un sussidio, cui invece avrebbe diritto. Mentre lo vediamo scivolare un passo alla volta nell’indigenza più assoluta, assistiamo contemporaneamente al riemergere di quella fierezza e di quel senso di giustizia, che lo porteranno a lottare senza tregua per i propri diritti. Osteggiato in questo dai tetri burocrati di cui sopra. Ma sostenuto, almeno moralmente, da altre famiglie proletarie della zona, tra cui quella di una giovane mamma single, che diverrà sua amica, ugualmente stritolata dai perversi meccanismi di una pubblica amministrazione sempre più distante dai bisogni delle fasce sociali più deboli.
Riassunto così il plot, a molti verrà da pensare che Io, Daniel Blake sia stato apprezzato a tal punto soprattutto per l’onestà nell’approcciare tali situazioni, e argomenti. La robustezza del racconto fa indubbiamente la sua parte. E di certo il film di Loach ha un’impennata, diventando quasi straziante, allorché sopraggiunge quella sequenza psicologicamente devastante e contraddistinta da una chiara, veemente denuncia, impostata sul dramma della giovane madre che non resiste più alla fame, che addirittura si sente svenire, dopo essere stata in fila a un apposito centro di raccolta per agguantare il poco cibo con cui nutrire se stessa e i figli. Sono scene, queste, che dopo l’immediato dopoguerra non ci si sarebbe più immaginati nell’opulento Regno Unito, ma che evidentemente un altro silenzioso conflitto, portato avanti con rapacità dalle classi dirigenti europee, sta rendendo nuovamente possibili…
Sarebbe però riduttivo limitare a questo la riuscita del film di Loach. Io, Daniel Blake è anche un saggio della straordinaria capacità del cineasta britannico di far apparire quasi scontata, neanche fosse riconducibile a generazione spontanea, l’estrema verosimiglianza delle tipologie umane e degli ambienti rappresentati nelle sue opere. Tutto scorre nella massima semplicità, come se si stesse registrando in diretta, sul momento, l’acceso e drammatico confronto tra soggetti animati da obbiettivi diversi. Ciò non corrisponde certo a una colpa, a un difetto, come vorrebbero far intendere certi detrattori di Loach, quelli per i quali il cinema è solo sperimentazione formale da esibire a tutti i costi… e che magari neanche si rendono conto del piccolo “miracolo”, costituito ad esempio dall’impressionante naturalezza espressa dai vari interpreti di questo dramma contemporaneo, agghiacciante nei suoi sviluppi, ma non immune dai lampi di ironia e dagli sfoghi indirizzati verso una salutare ribellione che è la vitalità stessa dei protagonisti a introdurre.
Cinema con al centro la narrazione, quindi, ma non per questo meno incisivo e curato nella messa in scena. Anzi! Loach, se uno ci fa caso, oltre che confermarsi maestro del realismo e della denuncia politica, si rivela anche autore conscio della profonda suspance implicita nei suoi racconti cinematografici; come quando l’occhio di uno dei protagonisti più giovani spazia, attraverso il buco della serratura, negli interni di una casa, alla spasmodica ricerca di qualche segno di vita da parte del sempre più consunto Daniel Blake, sulla cui sorte amici e vicini cominciano a essere preoccupati. Perché il cinema di Ken Loach può essere anche questo: dramma sociale, con la tensione emotiva di un thriller.
Stefano Coccia