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Sorry We Missed You

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VOTO: 6.5

Vita di famiglia ai tempi di internet

Sono passati 52 anni dal primo film di Ken Loach per il grande schermo, Poor Cow: un mezzo secolo di cinema al servizio degli umili, degli strati sociali più svantaggiati. Ne è una conferma Sorry We Missed You, presentato in Concorso al Festival di Cannes 2019, dove l’arrabbiato regista britannico mantiene inalterata tutta la sua energia, e soprattutto la comprensione delle nuove povertà, il saper identificare la nuova classe operaia, il nuovo ceto proletario. Protagonista del film è una famiglia di Newcastle, città postindustriale che è stata sede di un importante polo manifatturiero. Ricky, il marito, ha perduto il lavoro e lo vediamo da subito in un colloquio già di per sé 2.0. Diventa così un corriere per le spedizioni delle società dell’e-commerce come Amazon. Deve comprarsi un proprio furgone, può farlo solo vendendo la macchina della moglie. Il suo lavoro prevede zero garanzie e tutele per infortuni, malattie o quant’altro, una struttura di subordinazione dove il rapporto tra dare e avere è decisamente sbilanciato, a fronte dell’avere acquistato di tasca propria furgone e licenza. E il suo lavoro è soggetto al meccanismo infernale dei feedback lasciati dagli utenti nell’app. La moglie Abby fa la badante a domicilio di persone anziane che hanno tutti i difetti della senilità, come quella signora che butta per terra il suo piatto con il pasto solo per farle un dispetto, senza peraltro che lei faccia una piega. Vediamo Abby all’inizio mentre dà letteralmente i numeri, facendo calcoli, sciorinando le entrate e uscite del bilancio famigliare nel classico tentativo di arrivare a fine mese. Uno dei due figli si rivela problematico per il suo assenteismo scolastico, per la sua attività di graffittaro per i muri della città, e a casa è scontroso con i genitori. La famiglia protagonista del film sembra essere rappresentata da un cane con tre gambe che si vede a passeggio in una scena. Sembra che il tutto si accanisca contro di loro.

Da questa nuova macelleria sociale del liberismo telematico non se ne esce, e Ken Loach ce lo dice apertamente alla fine quando il padre lascia un bigliettino, estremo, alla famiglia con un messaggio che contiene la classica faccina dell’emoticon. Anche se cartacea la nostra comunicazione è ormai impoverita e irrimediabilmente permeata dal linguaggio semplicistico, e ipocrita, di internet. L’assunto di Loach è invero basato su sociologismi spiccioli che il regista mette in scena in un’opera a tesi. La fine della tutela dei lavoratori porta all’insicurezza e al degrado dei rapporti umani che si trasmettono alle nuove generazioni provocando il disagio giovanile. Semplice o semplicistico come può esserlo la realtà dei fatti. Allo stesso tempo la sua missione cinematografica è necessaria: c’è sempre bisogno della sua capacità di denuncia. Se il figlio scarica le tensioni con l’attività di graffittaro che è una forma protesta ma anche di arte, come il film evidenzia, non possiamo dire che Loach adotti un’altrettanta forma cinematografica di protesta, nel senso godardiano della posizione morale della macchina da presa, come lo è il contenuto dei suoi film. Il cinema del regista è un cinema popolare usato come veicolo di istanze sociali. E in una battuta di Sorry We Missed You, si cita il calciatore Éric Cantona richiamando così al film anomalo del regista Il mio amico Eric, che evidenzia la sua solidità della messa in scena, in grado di realizzare anche opere fuori dal suo cinema arrabbiato.
Ken Loach possiede questa grande capacità di trasformare la tesi di cui sopra in sceneggiatura e film. Non ci sono personaggi che non abbiano uno scavo psicologico e finanche al bastardo numero uno, come lui stesso si autodefinisce, il capo di Ricky, colui che è al servizio dei padroni invisibili, è concessa una storia di vita, del padre che mungeva il latte. E Loach regala anche momenti di grande poesia come quelli in cui la figlia più piccola accompagna Ricky nelle consegne, saldando così il loro rapporto affettivo. Ma la presenza della bambina non viene vista di buon occhio dai padroni e viene subito impedita. Viene in mente Tom, il protagonista dello Zoo di vetro di Tennessee Williams, che viene licenziato da magazziniere per aver scritto una poesia su una scatola di scarpe. Non c’è spazio per i sentimenti e tanto meno per l’arte, o per tutto ciò che è considerato economicamente improduttivo, in un mondo capitalistico dove tutto deve essere asservito al profitto con la massima efficienza.

Giampiero Raganelli

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