Salva(mi)
Dopo esser stato presentato in anteprima all’ultimo Toronto International Film Festival, The Oath di Baltasar Kormákur è stato insignito del Premio come Miglior Film all’edizione 2016 del Noir in Festival «per la maestria con cui il regista, anche attore e produttore del film, è riuscito a mettere in scena il dramma di un uomo costretto ad affrontare le proprie contraddizioni. Una cifra stilistica personale che mostra grande padronanza del linguaggio visivo e drammaturgico». Nella motivazione della giuria (composta da Pascal Bonitzer, Renato De Maria, Emma Lustres, Laure Marsac e Chiara Civello) sono racchiusi gli elementi che più ci hanno colpito dell’ultimo lavoro del regista di Everest e su tutti spicca lo stile.
«Se mi sarà dato di salvare una vita ringrazierò» leggiamo in incpit e subito dopo scopriamo la professione di Finnur (lo stesso Kormákur, che offre un’intensa interpretazione): è un importante cardiochirurgo, pronto a salvare vite umane e questo è un elemento centrale non solo della sua professione, ma anche del suo essere. Parallelamente lo vediamo nelle vesti di marito devoto e di padre. Con lui vive la più piccola, l’altra, Anna (Hera Hilmarsdóttir), figlia di un’unione precedente, è andata via di casa ufficialmente per motivi di studio. «La sua tranquilla vita familiare inizia a mostrare delle crepe quando scopre che sua figlia Anna ha una relazione con uno spacciatore (Gísli Örn Garðarsson)» (dalla sinossi ufficiale). È qui che sorge spontanea la domanda che, seppur per altre storie, è emersa spesso negli ultimi film di cui vi abbiamo parlato (basti pensare anche a 7 minuti di Michele Placido): cosa si è disposti a fare pur di sopravvivere? E, nel caso specifico, cosa si può arrivare a compiere per salvare qualcuno che si ama?
L’artista islandese aveva già posto una domanda del genere tramite Una tragica scelta (2010) in cui due genitori lottavano, con le unghie e con i denti, per ottenere un trapianto polmonare per la propria figlia.
Allo stesso Noir in Festival, Blood Father con Mel Gibson trattava questo legame importante tra padre e figlia e come il primo si relaziona nel momento in cui lei è in pericolo. Sul piano, invece, della produzione nostrana la mente va a Perez di Edoardo De Angelis (2014) in cui Demetrio Perez (Luca Zingaretti) si trova di fronte a una scelta da accettare, il guadagno consiste nell’incastrare Francesco Corvino (Marco D’Amore), giovane camorrista che ha una relazione con sua figlia.
In The Oath un punto nodale che sottende le azioni di Finnur è costituito dalla sua vocazione di medico, ma ovviamente non possiamo andare troppo in profondità rispetto a questa affermazione perché rischieremmo di svelarvi alcuni tasselli. Nel lungometraggio, il regista (e co-sceneggiatore insieme a Ólafur Egilsson) è riuscito a creare un buon equilibrio tra la profondità psicologica dei personaggi (scegliendo anche di non andar a fondo di alcuni aspetti che si intuiscono) e l’azione drammaturgica. Le inquadrature sono senza dubbio a servizio di un plot che riesce a mantenere alta la tensione senza far intuire fino all’ultimo gli sviluppi effettivi. Al contempo Kormákur sfrutta la bellezza e il fascino anche un po’ “gelido” del paesaggio naturale (siamo in Islanda, suggestive le riprese col drone e degna di nota la fotografia curata da Óttar Guðnason) per conferire ora ritmo, ora respiro a momenti in cui lo spettatore di turno è in tensione, vivendo empaticamente la scissione interna del protagonista. C’è un’unica risposta di fronte a interrogativi che lacerano dentro fino a quando, forse, l’istinto non entra in campo? Ad ognuno di noi l’ardua sentenza. In The Oath, ci preme dirlo, non c’è uno sguardo sentenzioso, ma molto umano, capace di abbracciare questi personaggi anche nelle loro contraddizioni. Ci auguriamo che il film possa essere distribuito presto in sala.
Maria Lucia Tangorra