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Blood Father

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VOTO: 5

In fuga con papà

Cosa non si fa per i figli? Tutto e il contrario di tutto a giudicare da quello che arriverà e sarà costretto a fare il protagonista di Blood Father pur di salvare la propria figlia da morte certa. Nel film di Jean-François Richet, presentato lo scorso maggio nel Fuori Concorso di Cannes 2016 e di recente nella competizione della 26esima edizione del Noir in Festival, prima dell’uscita nelle sale nostrane con BIM, abbiamo l’ennesima riprova che i figli so’ pezzi ‘e core e che minacciarli è un errore da non commettere assolutamente. Nell’ultima fatica dietro la macchina da presa del cineasta francese, la diciassettenne Lydia è costretta a darsi alla fuga, dopo che il suo fidanzato ha rubato un mucchio di soldi a un cartello della droga. Ha ormai un solo alleato, suo padre John Link, uomo dal passato violento, che ha trascorso un periodo in carcere e che ora vive in una roulotte facendo il tatuatore. Per salvare sua figlia, dovrà riprendere le armi in mano, far ricorso alle sue conoscenze e a tutte le abilità di ex criminale.
La sensazione che state provando in questo momento dopo avere letto della sinossi è la stessa che abbiamo provato noi, ossia quella di dejà vu. La mente, infatti, non può esimersi dal ritornare a film come Commando o Taken e a tanti altri che non staremo qui a elencare, poiché le analogie sono molto forti. Anche in quei casi l’utilizzo delle maniere forti si era reso necessario, con un numero piuttosto elevato di cadaveri e corpi agonizzanti a indicare il passaggio del giustiziere di turno, a maggior ragione se si tratta di un padre che vede l’adorata figlioletta in pericolo. Dunque, a mali estremi, estremi rimedi, perché il pacifico scambio di idee e la buona ragione a volte non sono sufficienti a ristabilire le cose, specialmente quando ci si trova a fare i conti con spietati killer, sicari, mercenari e megalomani che si credono Dio in Terra, ma che in realtà non sono altro che le rincarnazioni del demonio. Al cinema, quella appena descritta è una situazione di emergenza piuttosto ricorrente, con un padre chiamato a intervenire in soccorso della prole in difficoltà. Non bastano le dita delle mani a elencare gli innumerevoli casi di salvataggio finiti sul grande schermo dalla notte dei tempi della Settima Arte, ma per restringere il campo a quelli che presentano una qualche analogia con Blood Father non bisogna andare poi tanto in là come abbiamo visto. Le differenze con le pellicole firmate da Mark L. Lester e Pierre Morel sono sottili, per cui non cambiano più di tanto le carte in tavola. Queste possono essere riassunte velocemente. La prima è che in quella di Richet i cattivoni non hanno già messo le mani sulla preda, ma hanno tutte le intenzioni di farlo. Al protagonista il compito di impedirglielo, mentre ai padri di Commando e Taken quello di andare in capo al mondo per sottrarle dalle malvage grinfie degli antagonisti. La seconda è che John Link non è per niente uno stinco di santo e l’identikit disegnato nella sinossi ne è la dimostrazione. Esattamente il contrario del Bryan Mills di Taken e del John Matrix di Commando, rispettivamente un ex agente CIA e un colonnello dei marines, entrambi in congedo. Terza e ultima l’ambientazione. Qui siamo al confine tra Stati Uniti e Messico, mentre nelle pellicole dei colleghi l’azione si consuma in quel di Parigi e in uno Stato Centro America chiamato Val Verde (paese fittizio apparso in alcuni film hollywoodiani come Predator, che in realtà è Puerto Vallarta in Messico).
Ciò è sufficiente a farci capire che l’originalità non è la portata principale del menù della pellicola di Richet, semmai il dessert a fine pasto da ordinare se non si è mangiato a sazietà. Ma tale assenza non è da attribuire al regista transalpino, perché lui ha fatto quello che doveva, ossia mettere in quadro quello che era racchiuso nello script, a sua volta adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Peter Craig, qui anche co-sceneggiatore insieme ad Andrea Berloff. Di conseguenza, le responsabilità vanno imputate alla persona che sulla medesima scarna e poco originale trama ha realizzato prima un libro e poi una sceneggiatura. E quel qualcuno è proprio Craig. Unica attenuante possibile per giustificare tale assenza è forse la volontà dello scrittore e sceneggiatore di volerne volutamente fare a meno, puntando entrambe le volte sullo schema classico del revenge movie e sul suo carico di elementi ricorrenti e basici. Tra le “armi” in dotazione a quest’ultimo raramente c’è traccia di elementi inediti e originali.
Di conseguenza, il risultato non poteva andare oltre il più classico dei revenge movie, con abbondanti dosi di azione, conflitti a fuoco, inseguimenti, spettacolari incidenti e rocambolesche fughe, come riempitivo per colmare il vuoto narrativo e drammaturgico. Il tutto condito con battutacce ad effetto e qualche siparietto comico che non guasta mai. Tutta una serie di ingredienti che nella ricetta di Richet rispondono all’appello in dosi massicce. In particolare, le sequenze d’azione sono quelli che funzionano meglio (la sparatoria in moto e l’assalto alla roulotte nel deserto trivellata dai colpi di fucile), anche perché il regista francese ha dimostrato di sapersela cavare nelle scene dinamiche, con quelle realizzate per Assault on Precinct 13 che ne certificano la bravura.
Blood Father non è che una lunga fuga a piedi, su due e quattro ruote, che non può che terminare in un inevitabile quanto scontato bagno di sangue quando i protagonisti sono finalmente arrivi al capolinea. La timeline si presta come base sulla quale andare a stendere questa risicata bozza di storia, che si riduce alla messa in fila delle tappe di questa spericolata fuga on the road di un padre e una figlia, che se la dovranno vedere di volta in volta con la polizia, con sicari, con amici e nemici di vecchia data, ma soprattutto con gangster messicani tatuatissimi e armati fino ai denti. La fuga diventa ovviamente anche un’occasione per una convivenza forzata, utile come spesso accade per riallacciare rapporti e affetti interrotti. In Blood Father, John Link ha questa opportunità e proverà a sfruttarla. Il riavvicinamento con la figlia è possibile, per un padre che padre non è stato a causa della droga, dell’alcool e soprattutto della galera. Ora cerca pace e redenzione, ma per avere la pace dovrà prima attraversare la tempesta, una tempesta di piombo e sangue. In poche parole, quello che provano a mettere in scena Richet & Co. è una sorta di confronto familiare e generazionale tra un padre assente e una figlia piena di rancore, per dare alla sceneggiatura una qualche sostanza drammaturgica, ma Gibson e la Moriarty, anche se ben affiatati, non raggiungono le vette toccate dalla coppia Mickey Rourke-Evan Rachel Wood di The Wrestler. Per cui il confronto con quanto messo in quadro da Darren Aronofsky nell’emozionante sport-drama del 2008 non regge. E Richet è la seconda volta consecutiva che prova a portare sul grande schermo il suddetto confronto dopo Un momento di follia (remake dell’omonima commedia di Claude Berri del 1977), ma in entrambe le occasioni con esiti non particolarmente felici. Eppure, il cineasta parigino ha dimostrato in passato di essere anche un buon narratore e non solo un bravo regista, soprattutto agli esordi con film come État des lieux e Ma 6-T va crack-er, ma anche con il più recente dittico Nemico pubblico N. 1. Dunque il problema è alla radice: rende al meglio, quando viene messo nelle condizioni di farlo e quando sceglie con più attenzione i progetti.

Francesco Del Grosso

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