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The Hater

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VOTO: 8,5

Genesi e consacrazione di un “apprendista stregone”

Prima bloccato nella circuitazione in sala dal Covid e dalle restrizioni pandemiche, poi “inscatolato” nel piccolo schermo a uso e consumo del pubblico di Netflix: neanche a dirlo, l’occasione offerta da CiakPolska 2024 di vedere The Hater (Sala samobójców. Hejter, 2020) su uno schermo cinematografico, per la prima volta in Italia, rasenta l’eccezionalità. Tocca perciò ringraziare l’Istituto Polacco di Roma e Lorenzo Costantino, che in ambito festivaliero ci hanno voluto proporre tale evento, assieme al giornalista Federico Pontiggia che col suo intervento “soterico” ha contribuito a renderlo possibile, moderando inoltre alla Casa del Cinema un Q&A con l’autore, Jan Komasa, rivelatosi particolarmente intenso. Sabato 9 novembre, subito dopo la proiezione, si è potuto infatti spaziare col cineasta polacco tra un’infinità di argomenti, dai legami tematici e concettuali di tale lavoro col precedente Corpus Christi (2019) alla genesi dei più deleteri totalitarismi, dall’impronta sempre così attuale della “banalità del Male” teorizzata da Hannah Arendt all’impatto devastante dei social media sulle menti più fragili.

Sta di fatto che lo stesso Jan Komasa si conferma in quest’opera uno degli autori più maturi della sua generazione. Si può persino affermare che non lo sia diventato strada facendo, ma si sia proposto così sin dal debutto: non a caso alcuni dei temi proposti con tanta lucidità in The Hater, a partire dall’approccio patologico del protagonista (e di svariati altri personaggi) alle possibilità offerte dai nuovi media o comunque da internet, ossia le nuove forme di comunicazione e di interazione sociale, erano già presenti in quel lungometraggio d’esordio, Sala samobójców (2011), che con l’ultimo (anche per la riproposizione di determinati personaggi, vedi la scaltra e disincantata manager Beata Santorski magistralmente interpretata da Agata Kulesza) viene a costituire un ideale dittico.
Centrale ad ogni modo è in The Hater la figura di Tomasz “Tomek” Giemza, giovane antieroe figlio dei nostri tempi, interpretato con fosco carisma da un Maciej Musiałowski capace di sostanziare, sullo schermo, tutte le ombre di un personaggio per il cui desiderio di emergere dal grigiore e dall’anonimato lo spettatore arriva a provare una parziale immedesimazione, persino empatia, dovuta magari quest’ultima alle sue umili origini; il che creerà poi un cortocircuito emotivo di notevoli proporzioni, allorché le tare di natura psicopatologica e narcisista presenti nel carattere del protagonista, ed evidenti a ben vedere sin dalle prime battute del film, porteranno da azioni eticamente assai discutibili ma ancora circoscritte alla pianificazione di un’autentica strage, da sfruttare poi cinicamente e opportunisticamente a livello mediatico.

Scendendo su un piano più concreto, Tomasz è qui un giovane campagnolo cacciato per plagio dalla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Varsavia. Vistosi impossibilitato a emulare l’esistenza agiata degli “zietti” che gli finanziavano gli studi, intellettuali progressisti sempre pronti a propagandare i loro sani ideali ma dalla condotta nondimeno “classista”, incupito per giunta dall’incapacità di far colpo realmente sulla loro bella figlia “Gabi” (interpretata da una Vanessa Aleksander biondissima e seducente), Tomasz avrà maggior successo nel liberarsi degli ultimi scrupoli e principi rimasti, facendosi assumere da una società a dir poco ambigua che la già menzionata Beata Santorska gestisce, attraverso falsi profili e campagne denigratorie sui social, con lo scopo di incastrare influencer e politici distruggendo a pagamento, per conto di altri, le loro carriere. Col tempo il giovane protagonista finirà per essere “più realista del re”. Arrivando addirittura ad insinuarsi nel gruppo di volontari che sostengono la campagna elettorale di Pawel Rudnicki (impersonato a sua volta dal bravissimo Maciej Stuhr, figlio come è noto del grande Jerzy), politico emergente della capitale il cui contrapporsi alle derive maggiormente retrograde e autoritarie del paese appare, in linea di massima, più onesto di altri. Trascinarlo nella polvere rappresenterà quindi per Tomasz sia il suggello finale della propria smodata ambizione, condita da una crescente sete di potere, sia la perdita dell’ultimo residuo di innocenza rimasto.
Già sulla carta lo script di The Hater poteva apparire un ritratto desolante e veritiero della contemporaneità. Come in Corpus Christi, però, Jan Komasa è straordinario nel forgiare personaggi in chiaroscuro, la cui sofferenza interiore è descritta senza moralismi e manicheismi di sorta, lasciando semmai emergere quelle aperture che attraverso l’esercizio del libero arbitrio possono portare ciascuno verso un potenziale riscatto o verso il decadimento morale completo. Complice una società in cui la manipolazione delle informazioni e in ultima analisi della verità sta azzerando progressivamente qualsiasi scala di valori, uno come Tomasz pare incanalarsi purtroppo da subito verso la seconda ipotesi. Perciò a risaltare ancora una volta, nel cinema di Jan Komasa, è il sottile equilibrio che viene a crearsi tra un piano esistenziale profondo e la crudele essenzialità di un’analisi sociale che non fa sconti a nessuno.
Ideale “campo e controcampo” di questo quadro sociologico complesso è, a nostro avviso, la relazione (di sguardi come pure di gesti concreti) tra Tomasz e “quelli che stanno dall’altra parte”. Ovvero, in primo luogo, i componenti della famiglia Krasucki, borghesi che ci verrebbe spontaneo definire “di sinistra” le cui buone intenzioni non si riflettono quasi mai, ahinoi, in qualche slancio solidale che non sia meramente di facciata. Il loro rapporto circospetto e sempre “mediato” col mondo reale li rende vittime predestinate, nonché ignare, delle forze brutali di cui non sembrano nemmeno supporre l’esistenza. Un po’ come nel cinema di Haneke: vedi Benny’s Video, i 71 frammenti di una cronologia del caso o ancor più l’archetipico Funny Games. Mentre quel timore che le forze più retrograde della società e della politica polacca prendano il sopravvento, senza saper però contrapporre un’adeguata risposta sociale, economica, comunicativa, ci ha ricordato un po’ in loro l’analogo atteggiamento esibito dai “radical chic” di un datato film di Citto Maselli, Le ombre rosse, di sicuro più sciatto e incolore sul piano formale, ma non meno lungimirante.

Ecco, la forma. Se la costruzione drammaturgica del film di Jan Komasa è di rara potenza, incisività, lo si deve anche alla qualità delle riprese e del montaggio, parimenti utili ad esplorare le tante zone oscure della modernità, potenzialità e trucchi della rete compresi. Che si tratti di un sound design particolarmente ansiogeno, opprimente, come pure di un fuori campo che lascia sempre supporre dietro l’angolo intrighi, minacce e tragiche fatalità, lo stile stesso del film ritaglia attorno a Tomasz un mondo il cui marciume può annidarsi ovunque. A volte il discorso è più sottile, umbratile. Ma anche quando il thriller politico adombrato nel plot sfocia nella violenza più selvaggia, brutale, ovvero durante il sanguinoso attentato finale, quel Jan Komasa che in Warsaw 44 (2014) aveva già descritto la guerra stessa come trappola letale, da cui scappare è praticamente impossibile, dimostra di saper gestire le componenti di genere in modo tale che i personaggi abitino l’inquadratura con evidente disagio, consapevoli che l’oscurità relegata ai margini fino ad allora può dilagare, esplodere, da un momento all’altro. In forme tanto stranianti quanto spietate.

Stefano Coccia

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