Il nostro incontro con il regista polacco alla Casa del Cinema
La sera dell’8 novembre avevamo assistito con trepidazione a un piccolo grande evento: la proiezione sul grande schermo della casa del Cinema di The Hater, il film di Jan Komasa fino a quel momento prigioniero degli accordi presi con Netflix. Sempre grazie a CiakPolska 2024, sempre alla Casa del Cinema, il giorno successivo ci è stato concesso di incontrare l’autore, Jan Komasa, per una esclusiva intervista. A propiziare una conversazione particolarmente franca, vivace, ricca di spunti, è stato non soltanto il valore dell’opera cinematografica scoperta la sera prima, ma tutto il percorso registico di un cineasta che a nostro avviso rimane tra i più interessanti della scena contemporanea. Non soltanto a nostro avviso, fortunatamente, se si considerano i numerosi premi e la prestigiosa candidatura all’Oscar al miglior film straniero, per il precedente lungometraggio ossia Corpus Christi…
Ad ogni modo, ecco un sunto dell’incontro avuto con il regista polacco.
D: Ieri sera eravamo presenti al lungo Q&A con il pubblico, successivo alla proiezione del tuo film, The Hater. Ci sono diversi discorsi che ci hanno colpito, a partire da quel parallelo tracciato con il precedente lavoro, Corpus Christi, sulle basi di un analogo modo di tratteggiare la figura del protagonista. Del resto noialtri seguiamo il tuo cinema, non soltanto grazie a CiakPolska ma pure per lo spazio riservatogli in questi anni dal Trieste Film Festival, già da diverso tempo, il che ci ha permesso ad esempio di entusiasmarci per Warsaw 44, lungometraggio da te realizzato sui drammatici sviluppi dell’Insurrezione di Varsavia. Sono tutti film piuttosto differenti tra loro. Ma partendo proprio dal discorso che facevi ieri sera su Eroe e Antieroe, ci viene spontaneo pensare che ogni tua opera cinematografica abbia un protagonista aggiunto. L’Etica! Ovvero quelle dinamiche interiori che portano i protagonisti, anche in situazioni difficili, a compiere determinate scelte. Pensi anche tu all’Etica come una sorta di fil rouge, che attraversa tutta la tua filmografia?
Jan Komasa: Grazie per questa domanda, perché la quintessenza di ciò che ho intenzione di fare è proprio porre domande al pubblico. Da sempre ho la volontà di fare film cui il pubblico, finita la visione, non smette di pensare, semmai inizia. E per realizzare ciò io cerco personaggi, protagonisti, antagonisti e storie che coltivino il paradosso. Ed è per tale ragione che mi pongo, ad esempio, questo quesito: un uomo che si finge sacerdote (vedi Corpus Christi, N.d.R), ma fingendosi sacerdote dà molto di più di quanto avrebbe dato da persona comune, che cos’è, una persona migliore o peggiore di com’era precedentemente?
Mentre nel caso del film che avete visto ieri, The Hater, la domanda che mi pongo è questa: il protagonista è una persona ferita, una persona che si sta in qualche modo vendicando, ma in mezzo al pubblico ci sono altri “haters”, persone che ugualmente si vogliono vendicare? Probabilmente sì!
D: Ci piace molto questa chiave di lettura, legata al protagonista e ai paradossi che si trascina dietro. Dei tuoi personaggi è bello poter dire che non siano tutto bianco o tutto nero. Questa cosa pare riflettersi poi anche sullo sfondo sociale: gli stessi personaggi che sono in contrasto con il protagonista hanno le loro ambiguità, un fattore che ad esempio in The Hater si avverte profondamente. Lì la famiglia da cui va il ragazzo è composta da persone con ideali indubbiamente civili, progressisti, ma sono anche parte di una elite molto spocchiosa, che noi definiremmo forse “radical chic”. Vi è quindi questo rovescio della medaglia, ovvero una serie di contrasti anche in personaggi di contorno che dovrebbero rappresentare un mondo più pulito, ma non sempre lo è?
Jan Komasa: Allora, io nella mia cinematografia cerco sempre una sorta di figura “animata”, una figura cioè sotto forma di algoritmo, una figura matematica che agita, muove tutta l’azione dato che, in contrasto con l’archetipo che è morto, rappresenta qualcosa di vivente.
A riguardo ho scritto anche un libro di testo, per gli studenti cui insegno in una scuola di cinema…
D: La scuola di cinema di Łódź, giusto?
Jan Komasa: Esatto. Ho scritto questo saggio proprio sull’importanza di tale figura, la “figura animata”. Questa figura animata si può intendere come una struttura, un algoritmo, una “funzione”, che vale per un unico film, ma non è più applicabile né gestibile per un altro film. Ecco passando da un’operazione cinematografica all’altra, questa funzione della figura animata che ho individuato nel saggio è rimasta valida.
D: Ecco, Jan, il tuo si conferma anche qui un cinema molto pensato, volendo pure molto politico. Un cinema del genere può a volte restare qualcosa di inerte, che non abbia cioè nella forma un contrappunto adeguato. Quel che del tuo cinema ci piace parecchio è invece il fatto di possedere una forma assai viva, che ne accompagna bene i contenuti. Ad esempio in The Hater, quando vi è quella escalation drammatica che conduce alla sparatoria, alla strage, ciò non viene mostrato come lo mostrerebbe Hollywood, ma viene giocato molto in forma straniante, attraverso il fuori campo, attraverso l’attenzione per un certo sound design che crea un’ansia crescente. Una forma, insomma, estremamente curata. Prima si citava Warsaw 44, anche quello un film decisamente ansiogeno, martellante, costruito però a tratti in maniera diversa dai film di guerra americani. Dunque, come affronti più in generale la questione dell’inquadratura, del fuori campo, della forma?
Jan Komasa: Io agisco come si agisce in architettura. Nel caso di questo film, per esempio, ho una finestra di due ore da utilizzare. E cercherò di utilizzarla al meglio, usando tutte le opportunità che mi offre il mezzo, tutti gli attacchi, tutti i particolari, tutto quello che posso fare nell’arco temporale di tale vicenda,
Per questo io cerco di capire e di definire le “figure animate” riscontrate in altri film. Vedere per esempio se si possano riutilizzare ogni tanto. In questo caso mi riferisco a Taxi Driver, per quel personaggio ritratto dopo che per lui la guerra è finita, con tutte le conseguenze traumatiche che uno può immaginare; ed è anche perché si è visto rifiutato dalla ragazza di cui è innamorato che il meccanismo della vendetta si mette in moto.
Qui ad esempio ho riflettuto molto sull’induzione del trauma. In Taxi Driver il trauma è antecedente alla vicenda racconta sullo schermo. Nel mio film il trauma è questo soffitto di vetro che divide le due classi, che in qualche modo non possono comunicare. E mi sono domandato spesso, realizzando questo film, come muovere tutta la situazione, come agire, cosa fare. E mi sono reso conto che una situazione analoga a quella di Taxi Driver può essere creata da cose minime. E noi spesso non ci rendiamo conto di come anche le cose minime, quasi invisibili, possano creare un disastro, un trauma profondo.
D: Ecco, un’ultima domanda è proprio questa: interessante è pure vedere chi abita l’architettura che studi per i tuoi film, poiché sono personaggi sfaccettati, complessi, che vengono sovente affidati a interpreti di un certo spessore. Per esempio in The Hater quel personaggio che alla fine risulta più umano di tanti altri, ovvero il politico in ascesa che subirà l’attentato, ha il volto di un attore davvero bravo come Maciej Stuhr, figlio del grande Jerzy Stuhr recentemente scomparso. Che importanza hanno quindi gli attori, per esprimere le contraddizioni e la complessità dei suoi personaggi?
Jan Komasa: Io studio molto gli interpreti che scelgo. Ad esempio il protagonista di The Hater, Maciej Musiałowski, è nella vita una persona molto estroversa, molto libera, molto stravagante; ha acquistato un castello in Slesia, vi organizza dentro dei festival, come si dice in polacco è praticamente un “uccello azzurro”, che vuol dire una persona incredibile.
Mentre il protagonista del film precedente, Corpus Christi, è Bartosz Bielenia ed è una persona molto chiusa, molto precisa, di grande erudizione e amante della letteratura. A volte pensavo se non sarebbe stato il caso di invertire i ruoli: scegliere Maciej Musiałowski per Corpus Christi e Bartosz Bielenia per The Hater. Si agisce in ogni caso sulle contraddizioni.
Mio padre, che è un attore teatrale (Wiesław Komasa, N.d.R.), diceva sempre questo: “Fai in modo che tu possa dare all’attore quello che lui non ha, così lo puoi stimolare, gli permetti di andare avanti, di arricchirsi.”
E questo secondo me è l’atteggiamento giusto.
Stefano Coccia