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The Handmaid’s Tale

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VOTO: 8

Nolite te bastardes carborundorum

Se è vero che le distopie fanno più paura proprio quando sono più vicine a noi, proprio quando rispecchiano le peggiori degenerazioni del nostro tempo, non dovrebbe sorprendere che The Handmaid’s Tale – ultimo prodotto seriale del servizio video on demand Hulu – sia quanto di più terrorizzante il nostro presente abbia da offrirci.

Chi lo avrebbe detto che un romanzo femminista vecchio di trent’anni (I racconti dell’ancella di Margaret Atwood, da cui la serie, ideata da Bruce Miller, è tratta) sarebbe stato ancora oggi così attuale e destabilizzante, trasmettendoci tanto esemplarmente paure legate a doppio filo al nostro quotidiano.
Dal reaganismo al trumpismo, infatti, il passo pare essere stato tragicamente breve se nella parabola della teocratica e patriarcale Gilead, specchio distorto dei principali timori degli anni Ottanta, possiamo ancora oggi, a XXI secolo inoltrato, rispecchiarci, cogliendo agghiaccianti riferimenti al presente e disarmanti sprazzi del nostro futuro prossimo.
Nella cronaca della schiavitù di Offred, della sua tremenda, nuova quotidianità al servizio del Comandante Waterford – persino nelle premesse di un’apocalisse più che mai annunciata, quando il suo nome era ancora June, e il suo mondo era ancora intatto e pericolosamente simile (se non identico) al nostro – c’è tutto il senso di un’operazione esplicita e radicale che urla forte il suo monito.
É inevitabilmente il corpo femminile a farsi così protagonista riluttante di The Handmaid’s Tale, un corpo attorno al quale si giocano le sorti del mondo, tra scenari fantapolitici, incubi patriarcali e degenerazioni aberranti. Un corpo concupito, desiderato, agognato, ma soprattutto sottomesso, violentato, privato di identità.
Un corpo come quello della stessa Offred e delle sue compagne di sventura, le ancelle, ultime donne fertili di un mondo morente che le vede come semplice merce di scambio, contenitori vuoti da riempire o, nel migliore dei casi, oggetto di trastullo proibito per i loro padroni (“Cos’è una donna, se non il sistema di deambulazione di una fica?” direbbe il Gerald di Stephen King).
In dieci episodi di ordinaria follia, attraverso un crescendo di angoscia e prevaricazione, punizioni fisiche e psicologiche, Offred ci porta all’interno della sua terribile routine, una giostra fatta di spie, paranoie, linciaggi, tra versetti della Bibbia e concepimenti stranianti, spiegandoci come si è potuti arrivare a tanto, e svelandoci come quella società patriarcale, autoritaria e folle non sia un incubo alieno né un delirante e bigotto Nuovo Mondo, ma una diretta evoluzione – un inevitabile, perfetto compimento – di quella che l’ha preceduta.
Un dramma privato, intimo e sussurrato (cui dà, tra gli altri, il suo fondamentale apporto l’interpretazione di Elisabeth Moss, ormai una garanzia per quanto riguarda i prodotti seriali di qualità) che si riflette in quello pubblico di una società senza più vergogna, dove il sesso è solo stupro, orrore rituale, emblema di una logica maschilista e prevaricatrice, e la ribellione è una promessa lontana, una speranza sussurrata di nascosto tra i banchi del mercato, una frase in latino che esorta, giorno dopo giorno, a resistere.
Come un testimone venuto da un futuro (passato) The Handmaid’s Tale colpisce così per la sua cocente forza politica, per la sua paradossale attualità, portando con sé una scossa emotiva e un monito accorato la cui urgenza ha davvero poco da spartire con qualsivoglia distopia fantascientifica, e la cui battaglia per l’uguaglianza, i diritti e il rispetto reciproco pare giocarsi non negli scenari futuribili di Gilead, ma in un mondo a noi tremendamente vicino e familiare.

Mattia Caruso

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