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Gli occhi di Tammy Faye

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VOTO: 7

An american show

Tutto, negli Stati Uniti, è spettacolo. Anche la fede religiosa, come testimonia senza ombra di dubbio la storia di Tammy Faye e Jim Bakker (Andrew Garfield). Una coppia di predicatori evangelici i quali, partendo da uno spettacolo di pupazzi, sono riusciti a saldare la religione allo show business tra gli anni settanta e ottanta, creando poi un network televisivo a gestione famigliare foriero di ottimi ascolti.
The Eyes of Tammy Faye (nella fedele traduzione italiana Gli occhi di Tammy Faye), opera che ha inaugurato la Selezione Ufficiale della sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, è la cronaca di una vertiginosa ascesa e di una rovinosa caduta, osservata, come suggerisce il titolo, dalla prospettiva della protagonista, una donna al contempo dentro e fuori gli schemi di regole ferree che non perdonano alcun passo fuori dal seminato.
Il film diretto da Michael Showalter – di suo personaggio che conosce molto bene l’universo di riferimento, visti i suoi trascorsi da comico e la regia di una perla quale The Big Sick (2017) in parte ambientato proprio nel sottobosco della comicità da cabaret – osserva l’evoluzione esistenziale di Tammy partendo sin dall’infanzia, condizionata dal divorzio materno in un’epoca (gli anni cinquanta) in cui la visione della donna era ancora pesantemente condizionata da determinati stereotipi. Appesantiti da una visione religiosa ben oltre i confini dell’integralismo. Così, la figlia di una donna divorziata veniva trattata alla stregua di un peccato da occultare, una sorta di pena da espiare per la povera bambina. E, per molti versi, The Eyes of Tammy Eyes rappresenta proprio la cronaca di una fuga da se stessa per il personaggio principale, non a caso perdutamente innamoratasi, molto giovane, di un uomo ingannevole e dalla natura duplice in più di un senso come il futuro marito. Impossibile dunque non sottolineare il determinante contributo di Jessica Chastain – anche in veste produttiva, a dimostrare un coinvolgimento totale nei confronti del progetto – nella ricostruzione di una donna realmente vissuta, talvolta ingenua nella sua inscalfibile fede in Dio e nel marito, ma anche consapevole e matura nel propagandare un messaggio religioso di autentica visione cristologica, fatto di coinvolgimento e accoglienza piuttosto che di esclusione e punizione per i cosiddetti peccatori. Tra cui ovviamente, almeno per la destra retrograda, omosessuali e persone alle prese con una difficoltosa ricerca di un’identità sessuale.
Se dunque The Eyes of Tammy Faye trova il suo punto di maggior interesse nella sovrapposizione quasi perfetta e indistinguibile tra parabola esistenziale della protagonista e uno show business “cannibalico” nella più ampia estensione morale del termine, nondimeno emerge qua e là una certa pavidità nel calcare troppo la mano verso certi meccanismi, deteriori e perciò altamente distruttivi, di potere. Gli stessi che hanno accentuato, in maniera pressoché irreversibile, il viale del tramonto di Faye, show-woman forse di non grandissimo talento ma certamente non troppo attenta a non disturbare i cosiddetti “manovratori”. Come se gli autori di un’opera comunque prodotta da una major (nello specifico la Fox/Disney) avvertissero da par loro la necessità di non sparare ad alzo zero contro il sistema nella sua interezza.
Forse a The Eyes of Tammy Faye – basato sul materiale confluito nella realizzazione dell’ottimo documentario omonimo diretto da Fenton Bailey e Randy Barbato, datato 2000 – avrebbe giovato un taglio maggiormente crudo e realistico, nella descrizione una vita segnata sin dalle primissime battute. Eppure va riconosciuta a Showalter e allo sceneggiatore Abe Sylvia un’abilità non comune nel tratteggiare un ritratto femminile purtroppo per lei in evidente anticipo sui tempi. E, come è noto, sono sempre le avanguardie a rimetterci per prime, sul campo di battaglia. Sia esso metaforico e meno.

Daniele De Angelis

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