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The Birth of a Nation

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VOTO: 5

Black Messiah

Realizzare un altro film incentrato sul tema della schiavitù degli africani d’America può essere rischioso, almeno se non si trova un punto di vista originale nel mettere in scena vicende già ampiamente trattate dalla Settima Arte. A maggior ragione quando sono ben chiari, come la Storia insegna, i ruoli di aguzzini e vittime. Nella trappola dell’opera banalmente a tesi, solo in apparenza radicali, è caduto con tutte le scarpe il regista/produttore/attore afroamericano Nate Parker, il quale per il suo debutto nel lungometraggio ha evidentemente sentito l’esigenza di gridare ad alta voce il proprio sdegno riguardo all’empio trattamento riservato alla sua gente in terra americana dopo la deportazione dal continente africano. Pulsione assolutamente condivisibile nel merito, molto meno nel risultato artistico; perché The Birth of a Nation – chiara l’allusione maliziosa nel titolo al capolavoro leggendario di D.W. Griffith, tanto rivoluzionario nella forma quanto reazionario nella sostanza, essendo tutto dalla parte dei bianchi – vuole sì riportare al centro dell’attenzione le sofferenze immani di un popolo mai completamente integrato, ma lo fa in una maniera così convenzionale da lasciare quantomeno perplessi.
Tratto da un fatto storico realmente accaduto – ci si permetta di dubitare nelle modalità mostrate nel corso del film – The Birth of a Nation, presentato nella selezione ufficiale dell’undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, si concentra sulla figura di Nathaniel (interpretato dallo stesso regista), schiavo acculturato che, una volta cresciuto, si propone nel ruolo di predicatore. Dapprincipio attratto dalla causa pacifista, anche a causa di un “padrone” non troppo crudele, il giovane Nathaniel si convertirà alla lotta violenta una volta vissuti in prima persona i soprusi subiti dal popolo di colore Nelle intenzioni di Parker il personaggio avrebbe forse dovuto incarnare le due anime dell’opposizione afroamericana, quelle cioè rappresentate da Martin Luther King, massimo assertore di una convivenza pacifica e paritaria tra etnie differenti, e Malcolm X, inizialmente fautore della violenza come unico possibile mezzo di emancipazione e riscatto. Purtroppo però la messa in scena del pomposo The Birth of a Nation attinge ad un immaginario del tutto predigerito. Nella prima parte – che si segue senza troppa fatica – ogni luogo comune riguardante l’immaginario sulle piantagioni del sud degli Stati Uniti è presente all’appello: maltrattamenti ai limiti e oltre della tortura, turni feroci nei campi di cotone, schiave da usare come concubine usa e getta per una notte da possidenti bianchi privi del benché minimo scrupolo. Quasi uno sceneggiato televisivo di discreta fattura gonfiato ad opera cinematografica. I problemi più gravi del film emergono però nella seconda parte, quando il confronto scende al corpo a corpo fisico, con conseguente feroce repressione della parte bianca. In questo specifico frangente il Parker regista scade nella retorica più bieca, ricorrendo ad immagini di un’enfasi totalmente fuori controllo e perciò insopportabile. Farfalle che si posano su ragazzini impiccati, angeli che compaiono al protagonista agonizzante sul patibolo sono sole esempi di un film di cui veramente si fatica a vedere un senso compiuto, se non quello di solleticare gli istinti più biechi, magari a seguito dei recenti, tragici, fatti di cronaca contemporanei tra polizia (bianca) e giovani di colore.
Al netto di qualsiasi polemica che ha accompagnato il film in patria sul suo contenuto, possiamo tranquillamente affermare che pellicole sul tema quali Il colore viola (1985) di Steven Spielberg, 12 anni schiavo di Steve McQueen per tacere del sottovalutatissimo e meraviglioso Beloved (1998) di Jonathan Demme, restano modelli irraggiungibili per un lungometraggio che si guarda bene dal suggerire qualcosa di nuovo, preferendo affermare le poche parole che ha da dire direttamente alla pancia degli spettatori.

Daniele De Angelis

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