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Stonehearst Asylum

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VOTO: 6

Pazzia al potere

C’è odor di paradosso. Viviamo un tempo in cui le serie televisive, per realizzazione tecnica e ricchezza di contenuti, sembrano cinema d’avanguardia. Di contro troviamo film che appaiono tanto gradevolmente innocui quanto già nati vecchi, pronti per un “usa e getta” in un qualsiasi prime-time televisivo su reti in chiaro. Se dovessimo fare un esempio calzante di quest’ultima categoria citeremmo senz’altro Stonehearst Asylum, ultima fatica di Brad Anderson presentata nella sezione “Mondo Genere” del Festival Internazionale del Film di Roma edizione 2014.
Il titolo aveva suscitato più di qualche curiosità tra i cinefili. Un po’ per l’ottimo cast coinvolto – i vecchi leoni Ben Kingsley e Michael Caine, tra gli altri – in parte per la discendenza da un racconto breve di Edgar Allan Poe – Il sistema del dr. Catrame e del prof. Piuma, in italiano – molto perché segnava il ritorno di Brad Anderson ai luoghi deputati della pazzia – i manicomi – già location, sia pur in epoca contemporanea del suo Session 9 (2001), autentico gioiello di tensione e indagine sulle cause della follia che gli fruttò un consenso pressoché unanime della critica. Speranze – è il caso di dirlo subito – andate per la gran parte deluse. Stonehearst Asylum è tutt’altro che un brutto film. Tiene desta l’attenzione, c’è una curiosa love story con sorpresa finale tra i personaggi principali Eliza Graves (la sempre bellissima Kate Beckinsale) e il giovane medico arrivato nell’istituto del titolo (il bello e intellettuale Jim Sturgess), c’è un discorso, molto in fase embrionale, su cosa possa aver significato essere stata donna in epoche decisamente oscurantiste. Cosa manca allora per il salto di qualità? In primo luogo una messa in scena davvero cinematografica, che possa obnubilare lo spettatore per condurlo in un mondo popolato davvero di anime perdute, anche se il plot riserva un ribaltamento immediato di prospettiva che non sveleremo per non raccontare troppi segreti della trama. Senza scomodare pellicole recenti come Shutter Island (2010) di sua maestà Martin Scorsese, bisogna purtroppo ammettere che Brad Anderson ha girato Stonehearst Asylum in modo a dir poco piatto, senza alcun guizzo stilistico degno di nota. Come si trattasse, per l’appunto, di un prodotto commissionato per una platea televisiva abbastanza pigra. Cosa ancora più importante, venendo al cuore del lungometraggio, l’ingrediente principale che latita in un film ambientato in un gotico edificio per la sanità mentale a cavallo tra Ottocento e Novecento è proprio la follia. Quella vera, quella che divora la mente di un individuo facendolo scivolare inesorabilmente verso un inferno senza ritorno. Accadeva, in modo felicissimo in Session 9 e L’uomo senza sonno (2004), altra notevolissima escursione di Anderson all’interno di una psiche ferita; non accade affatto in questo suo ultimo lavoro, dove il tema viene colpito e affondato sin da subito poiché usato unicamente a scopo di intrattenimento. Ed infatti, ad un’analisi più attenta, il genere preponderante in Stonehearst Asylum pare quasi essere quello melodrammatico, rispetto al thriller, con la storia d’amore appena menzionata a rappresentare il cuore pulsante del film. Niente di male, sulla carta. anzi. Il problema ulteriore è che Anderson non se la sente di infiammare neppure questo versante narrativo del film, facendo rimanere quest’ultimo su un livello di decorosa modestia per tutta la propria durata.
Al tirar delle somme si può dunque parlare di film superfluo, inutile. Brad Anderson continua ad adagiarsi su prodotti del tutto anonimi, anche se realizzati con indubbia professionalità, come testimoniano i vari Vanishing on 7th Street (2010) e The Call (2013). E lo spettatore che ha amato un regista agli inizi di carriera sempre originale, non può certo accontentarsi degli istrionismi di Ben Kingsley o dei lineamenti oltre la perfezione pittorica di Kate Beckinsale per esaltarsi. Chi va al cinema vuole, giustamente, il cinema. Altrimenti se ne sta tranquillamente seduto in salotto ad ammirare la prima stagione di True Detective. Serial televisivo dove c’è più insana follia e implacabile scavo dentro i personaggi in dieci minuti di ogni episodio che in tutta l’ora e tre quarti di durata di Stonehearst Asylum.

Daniele De Angelis

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