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Shut In

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VOTO: 4.5

Complesso di Edipo

La sorpresa maggiore relativa ad un film di qualità inconsistente come il thriller con venature orrorifiche Shut In, andrebbe registrata alla voce produzione. La quale per una volta non riguarda la famigerata Blumhouse capitanata dall’ineffabile Jason Blum bensì l’Europacorp di Luc Besson, altro “sorvegliato speciale” da parte di coloro che amano il cinema di un certo livello. Per il resto però, cast a parte, le modalità produttive sembrano assomigliarsi molto: location ristrette – in pratica una sola grande casa a far da teatro agli eventi raccontati – nonché regia e sceneggiatura affidate, nel primo caso, ad un carneade di estrazione televisiva come Farren Blackburn, mentre alla voce script troviamo l’esordiente Christina Hodson. Costi, sul versante concettuale, molto contenuti, insomma. E i risultati negativi si vedono tutti.
Sin dalle prime battute di Shut In – letteralmente chiuso in casa, segregato, con duplice riferimento al personaggio femminile principale interpretato da Naomi Watts che al di lei figlio – lo spettatore si sorprende a chiedersi come sia possibili girare ancora lungometraggi di genere facendo ricorso ad armamentari così vetusti e sfruttati. Dopo il prologo con rituale incidente d’auto, la povera psicologa infantile Mary Portman (per l’appunto Noami Watts) si ritrova vedova e con figlio diciottenne in stato vegetativo da accudire. Trova comunque la forza di continuare il proprio lavoro con giovanissimi pazienti, tra cui il piccolo Tom, nello studio adiacente l’enorme magione. Nella quale però cominciano a manifestarsi strane presenze, con relativa sarabanda di porte sbattute, rumori notturni di passi e via discorrendo. Spiritelli maligni in azione? Non esattamente, dato che la psiche ferita della dottoressa (ma chi psicoanalizza la psicologa?) partorisce incubi nel corso dei quali manifesta sia uno stato di minaccia latente nei suoi confronti che l’intenzione di affogare il figlio invalido. Secondo i didascalici autori di Shut In, insomma, uno più uno deve obbligatoriamente dare due come risultato. Svaniti dunque ben presto i dubbi sul fatto che l’insieme possa esistere solo nella mente della donna, Shut In degenera rapidamente in un imbarazzante ciclostile di Shining, beninteso esclusivamente da un punto di vista delle mere situazioni narrative. Senza spoilerare più di tanto si resta infatti nell’ambito della minaccia interna alla famiglia (anche allargata), si sfiora la relazione incestuosa nel manifestarsi di una vendetta scatenatasi senza alcun motivo, giustificata solo dalla follia (anche degli autori?) di un singolo personaggio e si fa pieno ricorso ad un qualunque bignami della psicoanalisi per giustificare le incongruenze di una storia capace solamente di far acqua da tutte le parti.
Assolutamente sprecate, allora, le prove attoriali della sempre convincente Naomi Watts, del piccolo Jacob Tremblay già ammirato di recente in Room e Somnia ma al quale, per l’occasione, hanno “dimenticato” di scrivere la parte; nonché del primo ruolo cinematografico di un certo rilievo da parte del giovane Charlie Eaton, assurto a gloria recente per merito del serial televisivo Stranger Things dove ha interpretato la parte di Jonathan Byers, fratello maggiore del misteriosamente scomparso Will. Tutto sepolto senza speranza da uno tsunami di déjà vu, in un film che sarebbe stato assai poco originale anche trent’anni orsono e che fa tristemente rimpiangere l’alto artigianato di un tempo che fu dei nostri Fulci e Deodato. Nelle loro mani sarebbe stata ben altra “casa sperduta nel parco”, all’autentico sapore di sangue…

Daniele De Angelis

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