Un sogno su due ruote
Gabriele ha 13 anni e, come i suoi compagni, vorrebbe una moto. Pur di convincere il padre è disposto a passare l’estate in alpeggio facendo il pastore. Affiancherà Claudio, che di anni, a dispetto dei segni che gli rigano il volto, ne ha 28. In due dovranno fare il lavoro di dieci: baderanno a un pascolo di più di cento mucche, portandolo in quota, cercando l’erba buona. Ma allo stesso tempo si dovrà mungere, trasportare il latte, fare il formaggio, rassettare la malga, cucinare. E bisognerà fare tutte queste cose sopportando la pioggia. Che quell’estate cade abbondante.
A giudicare dalla sinossi, quello raccontato in Il passo ha tutta l’impressione di essere il classico capitolo di un romanzo di formazione e in effetti lo è. Le caratteristiche genetiche della drammaturgica, lo spirito che lo anima e la one line che disegna sulla timeline il percorso di crescita del giovane protagonista, sono quelli che abitualmente trovano spazio e alimentano il coming of age vecchia scuola. E allora cosa rende interessante, quante e quali sono le peculiarità dell’opera firmata a sei mani da Alessandra Locatelli, Francesco Ferri e Mattia Colombo? Ma più di ogni altra cosa lo differenzia dalla grande massa di prodotti audiovisivi appartenenti al ricco e prolifico filone? Ebbene quel qualcosa c’è e va rintracciato alla radice del progetto e in ciò che è germogliato sullo schermo.
Il primo motivo di interesse è che la vicenda in questione non ha radici letterarie e nemmeno è il frutto dell’immaginazione dello sceneggiatore di turno, ma trae la sua linfa narrativa dalla realtà. Non è un film tratto da una storia vera, ma una storia vera che si è tramuta in un film, per la precisione in un documentario di osservazione che ha portato sullo schermo un frammento cruciale di un’esistenza, quella di un adolescente che per la prima volta si trova a fare i conti con le responsabilità e le fatiche dell’essere adulti. Ed è il fatto che sia stato il cinema del reale e non quello di finzione a raccontarci la suddetta transizione, senza alcuna costruzione a tavolino, copione o una qualsiasi voglia manipolazione, a colpirci maggiormente. La riprova ci viene dalla naturalezza mostrata dalle figure coinvolte, a cominciare dal giovane protagonista Gabriele, ma anche dal grado di invisibilità raggiunta dalla macchina da presa e dalla troupe al seguito.
Il secondo è l’ambientazione dove questo passaggio si compie, ossia quella montana. Si tratta di un vero e proprio banco di prova insieme alle fatiche del lavoro e alle sfavorevoli condizioni climatiche. Si sa che il racconto di formazione è adattabile a qualsiasi condizione socio-politica, epoca e latitudine, ma le prove alle cui si sottopone quotidianamente il protagonista hanno in questo caso il retrogusto del rito iniziatico, dove è la natura quasi incontaminata a dettare le regole del gioco e a fare da cornice. Idealmente sembra di assistere a quelle prove alle quali venivano sottoposti gli adolescenti nell’Antica Roma e nell’Antica Grecia per dimostrare a se stessi e agli anziani di essere diventati dei guerrieri, dei veri uomini, stando giorni e notti intere nelle foreste o sulle montagne. Se si vuole è un po’ quello che è successo al Gabriele de Il passo, che in maniera assolutamente spontanea ha deciso di trascorrere l’estate sulle montagne a lavorare sotto una pioggia battente, piuttosto che trascorrerla come tutti gli altri suoi coetanei. In tal senso, la scena dell’incontro tra il ragazzo, la maestra e i suoi compagni di classe, è davvero significativa e sottolinea a caratteri cubitali tale intenzione. Quel momento è a nostro avviso il nodo cruciale dell’opera, il suo cuore pulsante, che sancisce l’avvenuta trasformazione e in cui le difficoltà iniziali di Gabriele (l’imbarazzo, l’inesperienza) pian piano si sciolgono lasciando il posto a gesti sempre più consapevoli e sicuri. La montagna, con la sua gente, lo accetta e il ragazzo ricambia la fiducia dimostrandosi pronto a fare quello per cui si è proposto: il pastore in alpeggio.
Francesco Del Grosso