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Stranger Things

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VOTO: 9

Hai mai letto Stephen King?

Siamo nella cittadina di Hawkins, nell’Indiana, nel novembre del 1983. Una misteriosa creatura scappa da un laboratorio segreto del governo statunitense. Poche ore dopo, Will Byers, un ragazzino di 12 anni, scompare nel nulla. Quando si accorge della scomparsa, la madre Joyce (Winona Ryder) contatta le forze dell’ordine e il capo della polizia, Jim Hopper, lancia una ricerca in tutta la zona. Anche gli amici di Will (Mike, Dustin e Lucas) si mettono sulle sue tracce ma incontrano Eleven, una ragazzina con poteri telecinetici fuggita dallo stesso laboratorio e braccata dagli agenti governativi. Nel frattempo, la creatura resta a piede libero.

C’è poco da discutere: il fenomeno dell’anno si chiama Stranger Things. O meglio, si chiamerebbe Netflix, l’azienda di distribuzione online che l’ha mandata sui nostri schermi nel mese di luglio. Accompagnata da una scarsa campagna pubblicitaria, la piccola serie tv composta di soli otto episodi ha innanzitutto il lodevole merito di aver messo d’accordo critica e pubblico, in una vera e propria ovazione di consensi che l’ha subito trasformata in un oggetto di culto per gli amanti della serialità. Tanto è stato scritto, mentre andava in onda ed appena conclusa, sulla qualità tecnica del prodotto e sul perché bisognerebbe concedersi il gusto di godersela dal primo capitolo fino all’ultimo.
In primo luogo perché i fratelli Duffer – Matt e Ross – si son rivelati essere una vera e propria sorpresa nella direzione. Gemelli, classe 1984, americani, hanno fatto vedere le loro capacità sia in fase di sceneggiatura (si pensi ai quattro episodi della prima stagione di Wayward Pines da loro scritti) che nella regia di Hidden, un interessante lungometraggio uscito nel 2015. Con Stranger Things confermano come la buona riuscita dei loro prodotti non sia stata solo un caso fortuito, ma al contrario la riprova delle loro abilità artistiche.
Il secondo aspetto per capire Stranger Things riguarda il lato prettamente citazionistico, su cui molte parole sono già state spese in diversi articoli e recensioni che ne parlano, ed in cui l’eco di Steven Spielberg e Stephen King risuona in maniera costante. Soprattutto il secondo, attraverso l’argomento della telecinesi o delle porte dimensionali, oppure nella stessa costruzione dei giovani protagonisti che rimanda direttamente al capolavoro di Rob Reiner, Stand By Me – Ricordo di un’estate (1986), trasposizione cinematografica dell’omonimo racconto contenuto nell’antologia “Stagioni diverse”. Questi però sono solo due degli svariati richiami che i Duffer – tra I Goonies, Star Wars e Dungeons & Dragons –  hanno utilizzato per impacchettare il loro lavoro.
Niente è lasciato al caso, se il meta-cinema di Stranger Things – un cinema che non parla di se stesso ma, al contrario, utilizza se stesso per raggiungere il suo scopo – sarà funzionale proprio alla finalità che si propone, ossia quella di omaggiare il decennio degli anni Ottanta in tutto il suo splendore e in tutti i suoi paradossi. Le atmosfere, le musiche, persino la sigla iniziale: tutto è studiato per risvegliare nello spettatore lo spirito nostalgico per un’epoca in cui tutto era ancora possibile. Un’epoca di grossi stravolgimenti in cui il nucleo familiare e amicale ancora svolgeva il ruolo importante di offrire protezione lontano da agenti esterni, incarnati in questo caso dall’elemento paranormale della serie, e dove le relazioni sociali ancora passavano attraverso i giochi da tavolo dentro ad una cantina. Un decennio, quello dei floridi Ottanta, in cui la Guerra Fredda volgeva a termine ed in cui l’egemonia statunitense su tutto il mondo occidentale passava proprio attraverso l’immaginario collettivo fatto (anche) dalle cittadine come Hawkins.
Bisogna però essere chiari e sinceri, frenando gli entusiasmi: la serie tv prodotta dalla Camp Hero Production e dalla 21 Laps Entertainment per la piattaforma di Netflix segue un filo narrativo classico, senza ramificazioni, senza stratificazioni degne di nota o colpi di scena allucinatori. La storytelling ha un’unica direzione e quella viene seguita, dall’episodio pilota fino a quello di chiusura. L’originalità però non è il centro focale di Stranger Things, se il vero intento è invece quello – ampiamente riuscito – di fagocitare qualsiasi aspetto secondario all’interno di un universo nostalgico e mai ridondante o retorico, per ricordarci che il cinema è anche questo: memoria di ciò che siamo stati e non torneremo ad essere.

Riccardo Scano

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