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Shelley Duvall, non solo Wendy

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Una grande Musa

In genere pronunciare il nome di Shelley Duvall, ieri come oggi, significa catapultarsi con la mente nei corridoi dell’Overlook Hotel, in fuga sia da marito che spettri vari, ma anche per proteggere la vita di un bambino minacciato. Significa rivivere un terrore cinematografico mai provato né prima né dopo. Un’interpretazione eccezionale, quella di Shelley. Al di là dei “sadismi” registici di Stanley Kubrick. Si narra di costrizioni psicologiche, di ciak ripetuti centinaia di volte, di esaurimenti nervosi. Di un personaggio – Wendy Torrance, protagonista femminile di Shining, pagato a carissimo prezzo dall’attrice. Forse la tariffa per l’immortalità, ora che Shelley Duvall se ne andata da questo mondo terreno e dai suoi incubi, i medesimi che in Shining è riuscita a schivare salvando l’esistenza del suo bambino Danny dalla furia omicida del padre. Quasi un percorso cristologico al femminile dentro e fuori dal set.
Se Kubrick può aver offerto la performance più nota a Shelley Duvall, è a un altro gigante del cinema che si deve la sua scoperta. Robert Altman la notò ad un classico party americano e subito la lanciò nel cinema. Non avrebbe potuto fare altrimenti: fisico filiforme, volto estremamente caratteristico. L’ideale per mettere in scena personaggi complessi e tormentati, attraverso il tocco di un maestro unico. Divenne in breve musa altmaniana nonché icona di quegli anni settanta che intanto erano sopraggiunti. Tanti grandi film, alcuni capolavori. Citati in ordine cronologico, ma di grandissima importanza per l’evoluzione del cinema rapportato alla società del tempo, anche dietro ambientazione metaforica. La collaborazione comincia con Anche gli uccelli uccidono (1970), apparenza da fiaba sinistra ma molto ben ancorata alla realtà. Poi il western anti-capitalista I compari (1971), esplorazione del lato oscuro del classico genere statunitense per eccellenza senza dimenticare un’affilata ironia. Tralasciando per strada altro, ecco il capolavoro Nashville (1975), crocevia corale e musicale di ogni spinta che ha animato quel glorioso decennio. Ancora un altro western biografico del tutto atipico, quel Buffalo Bill e gli indiani (1976) con Paul Newman protagonista, opera troppo sofisticata per raggiungere i vertici al botteghino ma talmente eccentrica e intelligente da divenire un cult movie. Il decennio si chiude con Tre donne (1977) psicologica opera tutta al femminile, genere al quale Altman ha professato una notevole attenzione in carriera.
Dopo il menzionato Shining (1980), sempre con Altman arriva per Shelley Duvall un’altra parte per la quale appariva predestinata, quella di Olivia, compagna di Braccio di Ferro. Anche se Popeye – Braccio di Ferro (1980) segue le sorti nefaste alla voce incasso di altri lavori altmaniani, l’interpretazione di Shelley spicca, al fianco di Robin Williams, per candido surrealismo. Opere che raccontano di una grande attrice capace di raccontarsi per mezzo del suo fisico e molto altro.
Dopo una particina in Io e Annie (1977) del grande Woody Allen, in cui comunque Shelley spicca e non potrebbe essere altrimenti, altri film rilevanti nei fantasmagorici anni ottanta. I banditi del tempo (1981) delizioso pastiche storico ed avventuroso firmato dal gruppo Monty Python, e l’amena, godibilissima, rom-com Roxanne (1987) di Fred Schepisi, rivisitazione made in U.S.A. del testo di Edmond Rostand con Steve Martin impegnato strenuamente a conquistare, per interposta persona, il cuore della bellissima Daryl Hannah.
Da allora in poi tanti progetti, anche in veste produttiva, televisivi e cinematografici per Shelley Duvall, a testimoniare il proprio coinvolgimento totale nella Settima Arte e non solo. Una donna che non potrà che ricordarci per sempre quando il Cinema era coraggio e sperimentazione, contrassegnato dall’esistenza di Grandi Autori magari ispirati da attrici mai banali nemmeno se colte a camminare per strade. Come Shelley Duvall nella sua umanità.

Daniele De Angelis

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