Ho cantato la mia canzone
Forse abbiamo tutti voluto chiudere gli occhi, come fanno certi bambini di fronte a timori non facilmente controllabili. Forse in cuor nostro ritenevamo Robert Altman l’unico degli immortali del mondo del cinema, un po’ per la vitalità artistica che era capace di sprigionare in ogni suo film, molto per la cristallina coerenza di pensiero con cui ha attraversato cinquanta e più anni di inimitabile carriera registica. Eppure i segnali dell’imminente crepuscolo c’erano tutti, a partire dalla lettura nemmeno troppo tra le righe del suo ultimo, bellissimo Radio America, opera datata 2006 – che a questo punto assume i caratteri dello straordinario testamento cinematografico – in cui una lucidissima precognizione della fine, sia fisica che metaforica, traspirava realmente da ogni fotogramma. Sempre con l’usuale suprema sensibilità, ma anche –e questo un poco ci consola- con quella serenità tipica di chi si rende conto di essere arrivato all’inevitabile termine di un percorso quanto mai pieno ed intenso, ricco di tutte quelle sfaccettature che rendono un essere umano degno della massima stima e ammirazione.
Cercare di compiere una lettura critica della sua filmografia è impresa, oltre che impossibile vista l’entità numerica della stessa, quasi irrispettosa; perché l’Autore-Viaggiatore Altman ha battuto un numero davvero indefinito di strade, alcune anche apparentemente senza uscita, tanto da far scrivere a molti soloni “illuminati” alla fine degli anni ottanta il suo epitaffio artistico. E infatti sono proprio pellicole “imperfette” come il western post-post-moderno Buffalo Bill e gli Indiani (1976), la catastrofica (al botteghino…) ma per molti versi geniale rilettura fumettistica di Popeye (1980) o la fintamente allegra follia di Beyond Therapy – Terapia di gruppo del 1987 (forse il suo lavoro più massacrato dalla miopia critica), più che capolavori acclamati e universalmente riconosciuti come M.A.S.H. (1970), Il lungo addio (1973) e Nashville (1975), a meritarsi adesso l’onore della riscoperta in quanto simboli di quella sete inestinguibile di ricerca che ha portato il cinema di Altman ad essere riconosciuto da tutti come tale.
Robert Altman, in fin dei conti, ha sempre cantato la sua canzone attraverso l’unico microfono che conosceva bene, la macchina da presa. I testi non potevano piacere a tutti, poiché raccontavano senza alcuna indulgenza della nostra continua involuzione, delle malattie d’America e per estensione da contagio reciproco del mondo intero (vedere obbligatoriamente la resurrezione artistica compiuta in Short Cuts, ovvero l’incontro di due grandi, Altman e Raymond Carver, anno di grazia 1993), di ipocrisie assortite e di una realtà dove le insidie morali grandi o piccole sono e saranno stabilmente dietro ogni angolo. Ed il suo tanto brutale quanto salvifico sguardo ci costringerà molto a lungo a fare i conti con noi stessi per non sprofondare definitivamente.
Che la Signora in bianco di Radio America, magari con le effettive fattezze di Virginia Madsen, lo conduca per mano dove merita, il grande Robert, lui che da undici anni conviveva da trapiantato con un giovane cuore di donna e che sul composito universo femminile ha diretto nel frattempo, quasi a saldare un debito da vecchio gentiluomo, perle d’inestimabile valore come La fortuna di Cookie (1999) e Il dottor T e le donne (2000), opere che a molti ignari all’epoca parvero girate con mano squisitamente muliebre da un intellettuale dalla rabbia e l’indignazione “virile” mai riconciliate.
Le mille facce di Mr. Robert Altman.
Daniele De Angelis