Macrocosmo e microcosmo
Praticamente “Un amore 2.0”. Pare cioè che Gianluca Maria Tavarelli sia voluto tornare alle atmosfere delle sue prime pellicole, per l’appunto Un amore ma volendo anche Portami via, Qui non è il paradiso e Liberi, riportandole però all’oggi, ovvero a una società in cui tutto sembrerebbe rimasticato e corrotto dal culto dell’apparenza, dalla futilità resa dogma e dal cinismo imperante dei social. Sì, poiché in fondo i temi continuano a essere quelli di vent’anni fa: storie sentimentali i cui alti e bassi fanno sentire come sulle montagne russe, sogni di riscatto destinati a infrangersi sulla dura realtà, una precarietà diffusa che s’avverte sia a livello economico che sentimentale. Memore forse di quanto affermava “Carletto” Marx, ossia che “La Storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa”, il cineasta torinese (presente pure sullo schermo nell’autoironico cameo in chiesa) per Indagine su una storia d’amore parte proprio dal timbro intimista e quasi umbratile dell’incontro tra un uomo e una donna, sottolineato dalle note di un piano, incorniciato peraltro da un eloquente contrappunto metaforico (il leitmotiv delle stelle gemelle, parallelo cosmico della contorta relazione tra i protagonisti che, parafrasando l’ambito ermetico ed esoterico, ci riporta quasi al classico rapporto tra macrocosmo e microcosmo); per far poi deragliare il tutto in direzione di una sarabanda grottesca, di un progressivo, inesorabile naufragio le cui modalità e la cui tempistica vengono dettate, farsescamente, dalle dinamiche tipiche dei social network e – soprattutto – dalla sciagurata partecipazione a un programma spazzatura alla TV.
In Indagine su una storia d’amore assistiamo infatti alla crisi di un legame affettivo apparentemente forte, quello tra Paolo (Alessio Vassallo) e Lucia (Barbara Giordano), sentimento caratterizzato dalla comune appartenenza a un contesto siculo o per meglio dire palermitano (con tanto di pittoresche, irresistibili digressioni sul tifo rosanero) e trasferitosi armi e bagagli nel caos della capitale, assieme a quel sogno di sfondare come attori coltivato – con sfumature diverse – da entrambi i protagonisti. Ma quali compromessi la coppia sarà disposta ad accettare, in ambito professionale, laddove teatro e cinema indipendente vengono visti come “roba da sfigati” e a decretare il successo di un attore o attrice sono molto spesso terrificanti fiction televisive, ruoli altamente stereotipati e partecipazioni ad insulsi reality?
Ecco, quel Tavarelli che negli ultimi due decenni si è dedicato a tanta TV, cercando però di privilegiare progetti dal tono e dai contenuti un po’ più validi, alti, dà l’impressione qui di proporre una satira scanzonata, pungente e mordace di ambienti e situazioni che ha imparato a conoscere bene, magari a sue spese. Toccando perciò l’apice, a livello parodico, nell’ideazione di un fittizio programma trash intitolato “Scheletri nell’armadio” e affidato alla conduzione di un irresistibile, luciferino Andrea Sartoretti.
Senza rinunciare a note amarognole, disilluse, persino sarcastiche, Tavarelli riesce a districarsi con successo in questo nuovo lungometraggio tra lo squallore di un presente rimodellato su un pessimo gusto televisivo e l’essenza di un amore complicato, costellato di tradimenti ma punteggiato anche da momenti di passione e da fragili, incostanti riavvicinamenti; tutte situazioni, queste, rievocate con tempismo perfetto (e talora con implacabile humour) nella fitta partitura di flashback.
Ciò che ne deriva è una commedia agrodolce, infarcita di gustosi inserti meta-teatrali e meta-cinematografici, che sa prendersi sul serio ove occorra ma che per il resto, con molta ironia e autoironia (anche da parte dei protagonisti, visibilmente divertiti… specie quando si tratta di dare, a livello caratteriale, il peggio di sé), contribuisce a creare un affresco dell’attuale “società dello spettacolo” le cui derive pop sono spesso impagabili, surreali e spassose: dalla giocosa partecipazione al progetto di Kim Rossi Stuart, nel ruolo di se stesso a una festa di “cinematografari” romani tendenzialmente pariolini e fighetti, fino alle incandescenti esternazioni di un Alessio Vassallo intento ora a glorificare la “poesia” di L’estate sta finendo dei Righeira, ora ad inveire nei confronti del “cane maledetto” (evidentissima parafrasi di Boris) acclamato protagonista di un’infima soap opera.
Stefano Coccia