Il fuoco dentro
Capita spesso di misurarsi con esordi incapaci di confermare quanto di buono espresso dal cineasta di turno durante la gavetta, in particolare in quella della produzione breve, da sempre considerata una palestra dove fare esperienza dietro la macchina da presa o come un’anticamera che precede il grande passo. Per forza di cose, le aspettative nei confronti di coloro che hanno ben figurato con i rispettivi short sono alte e difficilmente vengono rispettate, per tutta una serie di motivi che non stiamo qui a elencare. Per fortuna c’è chi come Gianclaudio Cappai, cagliaritano classe 1976, che ha saputo sottrarre sé e il suo lavoro dai tentacoli letali di questa infelice statistica, che ha visto e che continua a vedere pluri-premiati cortisti mancare in maniera piuttosto clamorosa il bersaglio grosso. Per questo, ci ha fatto enormemente piacere l’aver ritrovato nella sua opera prima dal titolo Senza lasciare traccia, presentata in anteprima alla settima edizione del Bif&st nella sezione Nuove Proposte e nelle sale nostrane a partire dal 14 aprile grazie allo sforzo congiunto di HiraFilm e Il monello film, tutte quelle qualità di scrittura e di messa in quadro che tanto ci avevano colpito dei lavori precedenti di corta e media durata: Purché lo senta sepolto (2006) e So che c’è un uomo (2009). Per fortuna, il passaggio alla lunga distanza non ne ha intaccato la forza e il valore. Quanto approdato sullo schermo, come vedremo, ne è la riprova.
Ma Cappai non ha saputo soltanto mantenere i medesimi standard qualitativi; a lui va riconosciuto anche il merito di aver dato alla sua filmografia una continuità in termini di temi e di stilemi, senza per questo ripetere all’infinito lo stesso tipo di film, come accade ed è accaduto a molti colleghi più o meno illustri. In Senza lasciare traccia è possibile imbattersi in atmosfere, linguaggi, personaggi, elementi drammaturgici e registici, familiari e ricorrenti nel suo cinema, che permettono al pubblico e agli addetti ai lavori che hanno avuto modo di entrare in contatto con le sue prove precedenti di apprezzarne l’indubbia coerenza. Ciò consegna all’opera di Cappai un’impronta e un’identità ben precise, che rendono il tutto fortemente riconoscibile. Per coloro che, al contrario, non hanno avuto incontri passati con le pellicole firmate dal regista sardo, questa è la volta buona per scoprire il talento di un artista al quale auguriamo con tutto il cuore un lungo e proficuo cammino nella Settima Arte.
Il film racconta la storia di Bruno, un uomo che ha cercato di dimenticare un passato di cui porta i segni sulla pelle e dentro di sé, nella malattia che lo consuma lentamente: di quel passato non ha mai parlato con nessuno, neanche con la sua compagna. Fino a quando Bruno non ha l’occasione di tornare nel luogo dove tutto è cominciato: una fornace ormai abbandonata, diventata rifugio di un uomo e della figlia. Nessuno dei due riconosce quell’intruso, né immagina le sue intenzioni. Per guarire, Bruno deve trovare un colpevole, guardare in faccia l’origine del suo male. Cercare tracce, cancellarle, per tentare di fermare l’intruso che è in lui.
Per il suo esordio, Cappai rispolvera le sue doti da buon narratore, misurandosi con un dramma dalle tinte noir che sfocia nel revenge movie. Senza lasciare traccia è un film sul segreto, sulla ricerca della propria identità, sul peso del passato, sul senso di colpa, sulla vendetta e anche sui legami familiari. E la mente torna a una pellicola di recente produzione, ossia l’opera seconda di Stefano Lodovichi In fondo al bosco, con il quale condivide molti punti in comune. Ma prima di tutto, quello scritto (a quattro mani con Lea Tafuri) e diretto dal regista cagliaritano è un film che esplora in profondità il lato oscuro che risiede in ciascuno di noi, quel qualcosa che sedimenta nell’animo umano sino a implodere. Il risultato è un magma rovente di temi che genera a sua volta una serie di sovrastrutture psicologiche che vanno ad alimentare la solida linea mistery che fa da base al racconto e alle one line di coloro che lo popolano. Tutti i personaggi, a cominciare dal protagonista, lottano per liberarsi da ciò che ha segnato per sempre la loro vita, per quanto abbiano cercato di dominarlo, di nasconderlo o di negarlo. Come spesso accade certe verità devono e vogliono venire a galla; ed è solo questione di tempo prima che questo avvenga. Per il Bruno interpretato con grande presenza fisica e intensità da Michele Riondino, quel momento è finalmente arrivato. Senza lasciare traccia è la cronaca di una resa dei conti tra un uomo e il suo passato, un passato del quale porta addosso cicatrici metaforiche e reali, nella mente e sul corpo. L’unico modo per guarirle è andare all’origine del male che le ha generate. Lo script asseconda in maniera ottimale questo processo di svelamento della verità, mantenendo le carte coperte sino all’ultimo fotogramma utile, quanto basta per tenere alta l’attenzione dello spettatore.
Determinante per la riuscita dell’operazione è la messa in scena e la messa in quadro. La regia di Cappai è matura, sicura e in sintonia con la storia e con le figure che la percorrono. L’utilizzo assiduo della macchina a mano, di teleobiettivi per stare addosso ai corpi quasi fossero spiati da lontano, supportati da una fotografia satura e traboccante grana, dalle atmosfere anonime e rarefatte di un nord Italia non meglio identificato, dalle sonorità ipnotiche e disturbanti di Teho Teardo, contribuiscono ad alzare in modo via via sempre più crescente il livello di tensione e ansia. Sensazioni difficili da scrollare dalla retina anche al termine dei titoli di coda.
Francesco Del Grosso