Dalla parte giusta
Non c’è due senza tre. Tante sono le volte che la macchina da presa di Agostino Ferrente è tornata tra le strade, i vicoli, le piazze e le case di Napoli per raccontare frammenti di adolescenza vissuta e in molti casi negata. Un tema, questo, che pare stare moltissimo a cuore al regista di Cerignola e infatti, dopo Intervista a mia madre e Le cose belle, realizzati a quattro mani con Giovanni Piperno, in cui si raccontava la fatica di diventare adulti attraverso gli occhi di quattro ragazzi napoletani, Ferrente ha deciso di firmare in solitario il terzo atto di una personale e toccante trilogia.
Con Selfie, presentato di recente nella vetrina non competitiva dedicata al documentario del 20° Festival del Cinema Europeo di Lecce dopo il fortunato esordio alla Berlinale 2019 nella sezione “Panorama”, l’autore ci porta al seguito di Alessandro e Piero, due sedicenni che vivono nel Rione Traiano a Napoli. Sono amici fraterni, diversissimi e complementari, che hanno accettato la proposta del cineasta di filmarsi con l’iPhone per raccontare in presa diretta il proprio quotidiano, l’amicizia che li lega, il quartiere che si svuota nel pieno dell’estate e la tragedia del loro coetaneo Davide, rimasto ucciso in una sparatoria nel 2014 quando fu colpito da un Carabiniere che lo aveva scambiato per un latitante in fuga. Ed è proprio la sua morte il leit motiv ricorrente e il punto di partenza di una narrazione polifonica che avrà nell’auto racconto dei due co-protagonisti (e non solo) il modus operandi attraverso il quale prenderà forma e sostanza la timeline. Una modalità quella scelta dichiarata sin dal titolo dell’opera in questione, che trova un contrappunto con l’alternarsi sullo schermo delle immagini gelide delle telecamere di sorveglianza che sorvegliano le strade del rione.
La forza di un progetto come Selfie però non risiede nel linguaggio o nell’hardware dei quali Ferrente ha deciso di avvalersi per narrare e filmare, bensì nello sguardo e nella verità che riesce a cogliere e trasferire attraverso di essi. La Settima Arte, infatti, non è nuova all’utilizzo dell’iPhone o di tecnologie analoghe, tantomeno all’auto-rappresentazione. La scomposizione e la moltiplicazione dei punti di vista in soggettiva di simili apparati filmici restituiscono come in altri prodotti più o meno simili il flusso emotivo, orale, ma anche i gesti e i non detti che si materializzano davanti all’obiettivo. La mente a tal proposito ritorna ai cortometraggi Denise di Rossella Inglese e Selfie del tedesco David Lorenz o alle sperimentazioni targate Pippo Delbono (tra cui Amore carne e Sangue). Il come, il cosa e il quando nell’ultima fatica documentaristica del regista pugliese diventano un tutt’uno per narrare storie di formazione di chi prova quotidianamente a stare dalla parte giusta. Ed è lo stesso Ferrente a confermarcelo nelle note di regia: «Mi interessava raccontare gli sguardi di questi ragazzi, concentrandomi non tanto su ciò che vedono ma sul loro modo di guardare. E nello sguardo di Alessandro e Piero emerge il desiderio di una vita normale, dunque il conflitto con un mondo in cui la normalità è quasi sempre l’arruolamento nella criminalità, e tirarsene fuori vuol dire quasi disertare. Il quartiere diventa, nella soggettività dei due ragazzi che lo raccontano, un rifugio dove sentirsi a casa e il teatro delle loro emozioni, tra paura e ingenuità, tra rassegnazione e desiderio».
E in effetti sta nell’avere saputo mettere da parte immaginari comuni e pregiudiziali legati ad una tematica abusata a favore di una visione altra e non stereotipata, l’elemento caratterizzante della pellicola e in generale del cinema di Ferrente. Quest’ultimo si tiene bene alla larga da una visione che ormai conosciamo tutti abbondantemente per via del proliferare sul piccolo e grande schermo di pellicole che mostrano la suddetta realtà in zone disagiate concentrando l’attenzione sulla fascia adolescenziale (da Certi bambini al più recente La paranza dei bambini, passando per il documentario di Michele Santoro, Robinù). Quella che viene narrata senza retorica e con grande sobrietà in Selfie non è un’inchiesta sul campo, piuttosto una storia di amicizia, amore e futuro. La storia di un’adolescenza in terra partenopea che tenta, anche se a fatica, di stare lontana dalle sabbie mobili della criminalità organizzata. Per farlo, l’autore parte dai volti puliti e onesti di coloro che con coraggio ci hanno provato e ci sono in parte riusciti, anche se le ferite, il dolore, le ingiustizie, le discriminazioni, le delusioni, la malavita e la mancanza di speranza bussano costantemente alle loro porte.
Francesco Del Grosso