Tutti dietro ai soldi
La buona notizia consiste nel fatto che Denys Arcand, dopo il velleitario Le règne de la beauté (2014), è tornato a tematiche a lui molto più congeniali. E la discussione spettatoriale su bellezza e sensualità, nel caso di questo La caduta dell’impero americano, può essere al massimo limitata alla scelta delle due attrici che interpretano personaggi chiave, cioè la giovanissima prostituta Aspasie (la rivelazione Maripier Morin, abbagliante) e la più matura investigatrice Carla McDuff, impersonata dalla magnetica Maxim Roy. Stop. Appagato l’occhio (non solo maschile) dal gusto estetico-femminile come sempre al di sopra di ogni sospetto da parte di Arcand, c’è da registrare che questo film non è affatto, almeno narrativamente, il sequel dell’oggetto di culto Il declino dell’impero americano, realizzato da Arcand nel lontano 1986. Da quella pellicola l’autore canadese si porta dietro, oltre ai due attori feticcio Rémy Girard e Pierre Curzi, il suo solito senso dell’umorismo sardonico e beffardo, capace di rendere immediatamente riconoscibile il suo cinema anche a grandi intervalli temporali; e tuttavia quella era una lucidissima disamina critica sull’opulenza occidentale osservata sotto l’aspetto morale, nel senso di perdita di valori nella sfrenata ricerca di un edonismo sessuale fine a se stesso. Un “piccolo freddo” molto dialogato nell’ambito di un gruppo di amici, ovviamente canadesi come Arcand, durante il quale venivano sfogate tutte le frustrazioni nel vivere all’ombra di una potenza come gli Stati Uniti, osservati con malcelata invidia sia da un punto di vista economico che, per estensione “filosofica” del contesto, sul piano della capacità virile. Ne La caduta dell’impero americano Arcand non esita a sporcarsi le mani col genere, mettendo in scena nel prologo un sanguinoso tentativo di rapina che darà il là al proseguimento del film. Il quale si potrebbe definire un’ardita commistione tra crime-movie e commedia satirica, senza trascurare quella vena di ironica amarezza sempre presente nelle opere migliori di Arcand.
Un ragazzo di nome Pierre-Paul Daoust, non più giovanissimo, di buoni studi e cultura nonché impegnato nel volontariato, capita casualmente, nel corso del giro delle sue consegne, sul luogo della rapina appena citata. Si odono colpi d’arma da fuoco, ed egli stesso deve trovare riparo dai proiettili. Risultato: due cadaveri e un rapinatore di colore, ferito al gluteo, in fuga. E, dettaglio tutt’altro che trascurabile, due borse piene di denaro lasciate sulla strada. Perre-Paul ci pensa un attimo, poi le infila nel retro del proprio furgone, proprio mentre le sirene annunciano l’arrivo della polizia. Più che una caccia all’uomo, si scatenerà un inseguimento senza requie al denaro, il cui odore fa gola a moltissimi.
Come si evince dal titolo di quest’ultima opera, il declino è finito ed anche la fase della parabola verso il basso è giunta alla sua conclusione. La controversia sulla morale e sul piacere ha ceduto il posto ad una rovinosa caduta, appunto, nella palude del materialismo più inestricabile. Ci saranno sorprese, nel corso dell’evoluzione narrativa del film. Con un’improbabile, raccogliticcia, squadra ad imporre le regole del gioco sempre però dettate dal denaro. Altre morti, fisiche e simboliche, seguiranno. Ma attenzione, perché la totale godibilità del film di un autore che riesce quasi sempre ad essere intellettuale senza risultare pedante, o peggio ancora cattedratico, sta tutta nell’astenersi dall’emettere un giudizio compiuto sui vari personaggi. Nessuno viaggia, metaforicamente parlando, verso le fiamme di un ipotetico inferno. Qualcuno vince, qualcuno perde. Anche se gli sconfitti, quelli che non hanno un nome poiché non possiedono nulla, hanno comunque un volto ed una storia, come testimonia la bellissima sequenza finale de La caduta dell’impero americano. E sono loro, al tempo di Donald J. Trump – apertamente definito idiota, peraltro in numerosa compagnia, da Pierre-Paul nel suo monologo iniziale – e dei sovranismi assortiti, ad incarnare l’innocenza più assoluta, additati come minacciosi nemici invece che essere considerati una risorsa preziosa da inserire in ogni società in divenire. Dalle macerie di un crollo – quello appunto dell’impero citato da Arcand nel titolo – si può, forse ricostruire qualcosa. Questo ci racconta, alla fine della fiera, una criminosa commedia costellata di sangue in cui ci si diverte e, a tratti, si sorride di gusto; ma sempre a denti stretti.
Daniele De Angelis