Ragazzi sulla strada
Napoli e la sua gioventù. Quella però abbandonata a se stessa, che vive nei quartieri poveri senza una prospettiva di vita degna di questo nome. La micro-criminalità. Il carcere come passaggio obbligato. Poi le cose si faranno serie. Perché in certe zone condurre una vita all’interno della legalità non sembra una possibilità da contemplare.
Quando Robinù – documentario di Michele Santoro passato alla Mostra del Cinema di Venezia 2016 nella sezione Cinema in Giardino – lascia campo libero alla voce dei ragazzi intervistati, coglie perfettamente nel segno, descrivendo senza mediazioni una sorta di enclave con regole proprie in cui vivono, in teoria, giovani cittadini italiani nel pieno dei loro diritti e doveri verso il paese. Ovviamente non è così: trattasi di esistenze dal destino già segnato, le quali possono contare solo su qualche aiuto “interno” utile a farsi strada nell’universo camorrista oppure qualche isolato tentativo delle parrocchie locali che cercano di far capire loro che qualche altra strada è possibile. Ma quale? Attorno a questo interrogativo gira il cuore pulsante di Robinù, cronaca “in diretta” di un lassismo che si protrae da tempo immemorabile. Da parte delle istituzioni, le quali fanno finta di non vedere la continua degenerazione di una situazione ormai ingovernabile se non al prezzo di provocare una specie di guerriglia urbana; da parte dello stesso ambiente dove crescono i ragazzi, “educati” sin da subito a comprendere come il loro destino sia quello di avvalersi delle armi e perciò della classica legge del più forte. Uccidere o soccombere, se non fisicamente accettando di essere relegati ad un ruolo di secondo o terzo piano equivalente ad una morte in senso lato. Il documentario di Michele Santoro si immerge senza remore in un mondo di prostituzione anche morale, dove essere furbi o affermare la propria superiorità sin da giovanissimi può divenire l’unica scappatoia per evitare una pallottola mortale. Si evoca dunque come esempio da seguire l’anomala figura del ragazzo del titolo, giovane boss di quartiere che incitava i ragazzi a non seguire il suo esempio, spiegando loro le più elementari regole di sopravvivenza. Prima di rimanere lui stesso vittima di quell’infernale ingranaggio. E Robinù finisce con il diventare un’interrogazione sul concetto residuo di etica laddove tale parola sembrerebbe essere stata svuotata di qualsiasi senso compiuto.
Peccato però che qua e là, nella costruzione del lungometraggio, faccia capolino un certo moralismo, una tendenza a dipingere i giovani rappresentati nel documentario come vittime di un qualcosa troppo più grande di loro per essere anche affrontato. Potrà anche essere vero, sta di fatto però che se la catena criminosa non si interrompe dall’interno – poiché un intervento esterno (leggi Stato) appare eventualità a dir poco remota…- non si vedono altre possibilità di fuoriuscita da un destino tristemente annunciato. Vedendo Robinù si prova solidarietà per quei ragazzi “sfortunati”, ci si lava per un ora e mezzo le coscienze, quindi si accantona il tutto ricorrendo al teorema del “tanto non ci si può far nulla”. Quanto vorremmo, al contrario, assistere ad un documentario che facesse della “resistenza umana” ad un mondo che effettivamente cade in pezzi (e non solamente nella realtà fotografata in Robinù), il proprio messaggio finale. Chissà se verrà mai girato…
Daniele De Angelis