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La paranza dei bambini

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VOTO: 7.5

Ce pigliamm’ tutt’ chell che è ‘o nuost

Napoli 2018. Sei quindicenni – Nicola, Tyson, Biscottino, Lollipop, O’Russ, Briatò – vogliono fare soldi, comprare vestiti firmati e motorini nuovi. Giocano con le armi e corrono in scooter alla conquista del potere nel Rione Sanità. Con l’illusione di portare giustizia nel quartiere inseguono il bene attraverso il male. Sono come fratelli, non temono il carcere né la morte, e sanno che l’unica possibilità è giocarsi tutto, subito. Nell’incoscienza della loro età vivono in guerra e la vita criminale li porterà ad una scelta irreversibile: il sacrificio dell’amore e dell’amicizia.
Anche se potrebbe sembrarlo, quello raccontato prima da Roberto Saviano sulle pagine di La paranza dei bambini e ora sul grande schermo da Claudio Giovannesi nell’omonima trasposizione cinematografica, non è uno dei tanti capitoli sanguinari e marci del celebre romanzo criminale firmato dallo scrittore e giornalista napoletano. Del resto, se riavvolgiamo il nastro della memoria e ripensiamo al Gomorra di Matteo Garrone, che del libro del 2006 è l’adattamento, tanto nella seconda quanto nella quarta storia che va a comporre la timeline del film qualche accenno sulle cosiddette “paranze” c’era e non è di certo passato inosservato. Leggendo la sinossi e assistendo alle azioni malavitose dei protagonista dell’ultima fatica di Giovannesi, infatti, riaffiorano nella mente tanto la coppia formata da Marco e Ciro quanto il tredicenne Totò, tutti quanti a loro modo attratti dal mito di Scarface e fagocitati dal “sistema” che li ha resi vittime e carnefici di se stessi in un gioco al massacro che si trasformerà ben presto in una guerra senza regole d’ingaggio. Una guerra consumata tra le strade, le piazze di spaccio e i vicoli di una metropoli che si fa specchio infranto di un mondo raccontato attraverso Napoli e non viceversa, dove vivere e bruciare le tappe all’insegna del tutto e subito. Soldi, donne, motori, lusso, vestiti firmati, eccessi, rispetto, droga e pistole sono il pane quotidiano. Il male diventa così destino ineluttabile, laddove il degrado materiale di una città allo sbando diventa anche quello morale dei ragazzini senza alcun’altra possibilità se non quella di seguire il proprio cammino di piccoli delinquenti che inseguono la scalata ai vertici del potere criminale. Ed è lì che adolescenti dal braccio armato e dallo sguardo di ghiaccio cercano di raggiungere le vette attraverso scorciatoie.
Quello che osserviamo sullo schermo è uno spaccato costruito con realismo attraverso un mix di immagini e parole che seguono i codici e le ambientazioni ormai ampiamente riconoscibili del crime campano e non solo, lasciando però alla porta qualsiasi tentazione di una visione stereotipata legata al microcosmo e alle esistenze che lo abitano. Nel suo quarto lungometraggio di finzione, presentato in Concorso alla 69esima Berlinale e nelle sale nostrane dal 13 febbraio con Vision Distribution, Giovannesi prende temi e stilemi chiave del suddetto filone e li mette a disposizione di una riflessione cruda e senza filtri sull’infanzia negata e sul desiderio adolescenziale di sfuggire alle regole della società. Ne viene fuori un racconto universale di deformazione, inghiottito in un’aspirale di violenza dal quale è impossibile riemergere. Violenza che come in Certi bambini o La terra dell’abbastanza non viene estetizzata, bensì finisce sullo sfondo per lasciare spazio alle emozioni e all’innocenza violata e distrutta dei suoi giovani personaggi. Sta qui il cuore pulsante e la forza del film, ossia nel suo non allinearsi ai tanti cloni partoriti nel sottogenere del crime-mafia-movie via via approdati sul grande e piccolo schermo dopo l’exploit di Gomorra. Come nel precedente e pregevole Fiore, ma anche in altri lavori precedenti (vedi Alì ha gli occhi azzurri), il regista romano ha concentrato lo sguardo sulle umanità e sulle contraddizioni della gioventù, così da restituire alla platea di turno tanto il mondo interiore quanto quello esteriore.

Francesco Del Grosso

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